Di Renato Marino
La storia di Jinan, ragazza finita schiava dell'Isis e riuscita a sfuggire agli estremisti del sedicente Stato islamico, estesosi tra Iraq e Siria, è ora un libro. Ecco come si è salvata dai terroristi:
“Un giorno mentre loro dormivano profondamente dopo aver combattuto al fronte, con altre cinque ragazze, siamo scappate dalla finestra. Abbiamo rubato un cellulare e così siamo entrati in contatto con i combattenti yazidi".
Lo yazidismo è la più antica religione del mondo con l’ebraismo. Per gli islamisti gli yazidi adorano il diavolo: niente di più falso, formano in realtà una setta da sempre perseguitata che discende dalla predicazioni di Zarathustra.
Il libro che narra la storia della 18enne Jinan uscirà in Francia venerdì 4 settembre. “Esclave de Daech" spiega le violenze fisiche e psicologiche subite da tante ragazze che come Jinan sono state vendute al mercato delle schiave nella parte irachena controllata dall’Isis.
Jinan racconta di ragazze e donne vendute in cambio di una pistola Beretta o di qualche centinaio di dollari. Tutte le schiave vengono torturate, nessuna viene uccisa, spiega la giovane, evidentemente sono più utili da vive che da morte per gli uomini dell’autoproclamato Califfato.
"Abbiamo passato tre mesi nell'abitazione dichi ci aveva comprato al mercato. E' stata molto dura, ci torturavano, volevano convertirci, ci imponevano di pregare e leggere il Corano. Chi si rifiutava veniva picchiata, incatenata al sole, con l'obbligo di bere acqua inquinata da topi morti. Queste persone non sono esseri umani. Sono sempre drogati e cercano ovunque vendetta"
Jinan parla da Parigi dove si sente al sicuro e dove ha presentato il suo libro:
"Non ti vogliono uccidere (gli islamisti, Ndr) ma tenerti in questo stato di prigionia. E' difficile scappare, quando ti trovano riprendono a torturarti. Non ti uccidono ma è peggio che morire".
La storia Di Jinan è a lieto fine, rispetto a quella di tante sue coetanee e connazionali: dopo la fuga lei riuscita a ritrovare anche suo marito e oggi vivono in un campo profughi nel Kurdistan iracheno.
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