Di Giorgia Grifoni
Roma, 10 settembre 2015, Nena News – Chi è abbastanza ebreo da avere il diritto di immigrare in Israele? Fino a qualche tempo fa la risposta era semplice: secondo la Legge del ritorno, promulgata nel 1950, chi aveva almeno un nonno ebreo poteva considerarsi tale. E poteva quindi effettuare la aliyah, ovvero il ritorno alla “Terra Promessa”, diventata una norma grazie alla quale centinaia di migliaia di persone provenienti dai quattro angoli del mondo nei decenni si sono potute installare nel neonato Stato ebraico. Ora, però, che di ebrei “puri” interessati a immigrare in Israele ce ne sono sempre meno, Tel Aviv ha escogitato un metodo per non perdere la propria maggioranza di fronte a un numero sempre crescente di palestinesi: cambiare la Legge del ritorno, permettendo anche ai “gruppi che hanno legami con il popolo ebraico” di installarsi nel Paese.
Tra i gruppi in questione ci sono le “tribù perdute”, remote comunità dell’India, dell’America Latina e di altre parti del mondo che rivendicano una discendenza “ebraica”. Altri, invece, vengono chiamati “Beit Anusim”, ebrei costretti a diventare cristiani durante le inquisizioni spagnola e portoghese. Infine, ci sono i gruppi convertiti di recente dal rabbinato non ortodosso, specialmente in Africa, che reclamano un posto tra gli “eletti”: la comunità più nota è quella degli Abayudaya, cristiani dell’Uganda – ma de facto ebrei praticanti – convertiti in massa nel 2002 da una corte rabbinica inviata a Kampala dal movimento dell’Ebraismo Conservativo. Nel 2013 fece notizia la richiesta di Mugoya Shadrach Levy, 25enne ugandese della comunità Abayudaya, di poter immigrare regolarmente in Israele secondo la Legge del ritorno: la sua richiesta è ancora al vaglio delle autorità e del rabbinato.
Qualche tempo fa il ministro dell’interno Silvan Shalom aveva annunciato la sua intenzione di “intraprendere la politica più liberare che c’è in materia di immigrazione per portare le persone da ogni parte del mondo”. E a giugno erano arrivati i primi successi della nuova politica demografica israeliana targata Netanyahu: 3 mila nuovi arrivi tra i Bnei Menashe, comunità originaria del nord-est dell’India che rivendica il proprio ebraismo pur non rispettando i criteri della Legge del ritorno. La loro immigrazione era stata sostenuta da Shavei Israel, organizzazione creata nel 2004 che ora sta lavorando per il “ritorno” degli altri 7 mila membri della comunità . Il suo fondatore Micheal Freund è uno stretto collaboratore di Netanyahu già dalla fine degli anni ’90: in una lettera ha scritto che Israele deve “pensare a un modo più creativo su come affrontare la continua erosione demografica del profilo ebraico del Paese”.
L’immigrazione serve come il pane a Tel Aviv. Negli ultimi anni è stato registrato un numero sempre minore di immigrati legali provenienti dallo zoccolo duro delle comunità ebraiche dell’Occidente: Stati Uniti, Francia, Germania e Gran Bretagna. Dopo gli attentati di Parigi e Copenhagen, Netanyahu si era affrettato a invitare gli ebrei dei due paesi a “tornare a casa”, un richiamo che, visti i numeri, si è rivelato inefficace. Ancora consistente rimane l’immigrazione da alcuni paesi dell’ex Unione Sovietica, come Russia e soprattutto Ucraina, straziata dalla guerra civile. Secondo i dati recenti diffusi dall’Agenzia Ebraica, lo scorso anno 6.900 persone sono immigrate da Kiev e 5.900 da Mosca.
Il quotidiano israeliano Haaretz fa notare come la stragrande maggioranza di loro non sia considerata “ebrea” dal rabbinato ortodosso e debba intraprendere una conversione una volta giunta nel paese, come è la prassi per tutti gli immigrati che non rispecchiano i criteri della Legge del ritorno e che vogliono usufruire dei “servizi” – matrimoni, sepolture, ecc – gestiti non dallo Stato ma dalla comunità religiosa. E’ accaduto anche ai Bnei Menashe: quando sono immigrati a Tel Aviv, i membri del gruppo sono stati sottoposti a conversioni ortodosse, altrimenti non avrebbero potuto sposarsi né essere seppelliti. Stessa storia per i Falasha dell’Etiopia arrivati prima di loro. Agli “ebrei dell’Amazzonia”, un gruppo di circa 100 peruviani discendenti di ebrei marocchini immigrati in Sud America nel XIX secolo, è stato invece negato di immigrare nel paese per mesi: il ministero dell’Interno ha ceduto solo dopo le pressioni dell’Agenzia Ebraica, che da oltre un secolo è incaricata di reclutare nuovi cittadini per lo Stato ebraico.
Secondo gli esperti, la modifica della Legge del ritorno potrebbe portare circa 3 milioni di nuovi cittadini nello Stato ebraico. Ed è un chiaro tentativo di bilanciare una tendenza demografica che negli ultimi anni ha seriamente allarmato le autorità : stallo dell’immigrazione ebraica da oltre un decennio, tasso di nascite palestinesi in continua crescita, con il risultato che – come ha dichiarato Sergio Della Pergola, demografo dell’Università Ebraica di Gerusalemme, al portale Middle East Eye – i palestinesi sono ora la maggioranza nell’area controllata da Tel Aviv, che include sia Israele che i Territori occupati. Non è un mistero, poi, che buona parte del governo Netanyahu voglia annettere la totalità della Palestina storica, in barba a un sempre più vago “negoziato” sponsorizzato meccanicamente solo dalla comunità internazionale.
Ora le autorità israeliane puntano quindi a comunità più povere e maggiormente inclini a trasferirsi in Israele con tutti i benefici che questo comporta. Jamal Zahalka, membro palestinese della Knesset, ha accusato il governo di voler sfruttare ulteriormente una “legge razzista e antidemocratica”: “”La Legge del Ritorno – ha dichiarato a Middle East Eye – è stata creata appositamente per permettere a milioni di ebrei che non hanno collegamento con questa terra di emigrare e per evitare che milioni di profughi palestinesi e loro discendenti tornino alle loro case”.
FONTE:http://nena-news.it/israele-apre-le-porte-a-chi-professa-lebraismo/
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