Di Magda Redaelli
L’autodiagnosi compulsiva (soprattutto di ipotetiche turbe mentali) era uno dei miei passatempi preferiti da adolescente. Giravo in lungo e in largo su Wikipedia, diagnosticandomi tutto e prendendomi malissimo: Disturbo Borderline di Personalità, Bipolarismo, Panico, Psicosi, Depressione, e chi più ne ha più ne metta, tutto questo nel tentativo di dare un nome scientifico al mio vago ed onnipresente malessere.
Non trovando patologie che mi corrispondessero a pieno, avevo concluso che quell’intrico opprimente di paure ingestibili e nervi tesi era semplicemente la normalità. Così come l’insonnia, l’herpes ricorrente, le cefalee, le contratture ed i disturbi gastro-intestinali di cui ho sempre sofferto: tutto normale. Convinta anche da genitori e amici, mi ero rassegnata al fatto di non essere malata e di non avere nulla di speciale o di sbagliato. Fino all’arrivo dell’ultima meravigliosa malattia apparsa sul mio corpo.
A partire da un paio di bollicine, in un paio di mesi, avevo sviluppato un doloroso e sanguinolento eczema su entrambi i palmi delle mani. Le cure dermatologiche non funzionavano e la mia dottoressa riusciva solo a dirmi che ero molto stressata e che bisognava che mi calmassi, altrimenti sarebbe peggiorato. Ma quando le chiedevo: “Come si fa a rilassarsi?”, in risposta ricevevo delle gran scrollate di spalle. Così ricominciai a cercare risposte su Google, lanciando ricerche del tipo: “Sono sempre stressata”, “Stress eczema”, “Fermate il mondo voglio scendere”, “Come calmarsi”, e un bel giorno inciampai sulla pagina del DAG, ossia il Disturbo d’Ansia Generalizzato.
Il Disturbo d’Ansia Generalizzato è stato scoperto piuttosto recentemente, la sua definizione risale solo al 1980 e alla terza edizione del Diagnosis Statistic Manual. La quinta edizione di questo manuale, riferimento internazionale in diagnostica e statistica dei disturbi mentali, definisce il DAG come: “uno stato di ansia permanente/preoccupazione eccessiva nel corso di almeno sei mesi.” Le donne ne soffrirebbero nettamente di più degli uomini con un rapporto di 1,5:1.
Leggendo e cercando informazioni sul DAG, realizzai che l’ansia mi calzava a pennello: sempre mille pensieri per la testa, che vorticano tutti insieme, uno più stressante dell’altro, in permanenza. L’impossibilità di vivere il momento presente, come godersi il sole nel parco o fare una passeggiata, o parlare con un amico ed ascoltarlo davvero, perché buona parte del cervello è impegnata a dibattere di una serie infinita di cose brutte, minacciose e incombenti che hanno luogo solamente all’interno di esso.
L’ansia generalizzata, contrariamente allo stress, non viene da una fonte esterna, ma da dentro, e si spalma ben bene su ogni aspetto della vita. Vivere con l’ansia è molto stressante. Ogni aspetto della propria esistenza è potenziale fonte di preoccupazione, dubbi esistenziali e paure difficilmente controllabili, per questo l’ansioso soffre spesso di esaurimento nervoso.
Il DAG non ha un modo di manifestarsi spettacolare nella vita quotidiana e quindi è più difficile da sospettare e diagnosticare. Molte persone che soffrono di questo disturbo, affermano di soffrirne da quando erano piccole e di avere consultato diversi specialisti prima di venirne a capo con questa diagnosi, dopo anni di insonnia, affaticamento, depressione, sensazione di inadeguatezza, irritabilità, disturbi psico-somatici, dipendenze, fobia sociale, autolesionismo, attacchi di panico.
Ci sono anche altri fattori che determinano una lunga e impervia diagnosi della malattia: la medicina occidentale specializzata tende a curare i sintomi locali, ignorando il più delle volte le condizioni generali di salute psico-fisica dell’individuo (a maggior ragione se si parla semplicemente di benessere, e non c’è pericolo di morte imminente), mentre l’entourage sociale dell’ansioso tende spesso a minimizzare o ignorare la sua ansia (“Una ragazzona come te…!”, “Ma smettila, non hai niente! È la vita!”, “Sono ben altre le persone che stanno male”).
Ci ho messo sette anni in tutto, ad avere una diagnosi precisa. Ho consultato parecchio personale specializzato a diverse riprese durante e dopo l’adolescenza, facendo tentativi di terapia che si sono sempre rivelati deludenti. Avevo l’impressione che psicologi e psichiatri mi credessero una mitomane in cerca di attenzione e che non cercassero davvero di capire cosa mi facesse stare male. Nessuno mi aveva mai parlato del DAG e quando l’ho scoperto, ho insistito perché mi venisse riconosciuto. Quando questo successe, le cose per me cominciarono a migliorare.
Già solo con l’accettazione dell’ansia, i miei sintomi si attenuarono, le palpitazioni, gli attacchi di panico, i tilt cerebrali in cui vedevo tutto nero e mi sentivo immobilizzata. Cominciai a rendermi conto che le mie reazioni agli stimoli (che fossero una litigata con il fidanzato, un problema sul lavoro, un vuoto esistenziale del mio conto in banca) erano davvero dettate da un mio modo interno di lasciarmi offuscare e travolgere, e che poteva essere diversamente se fossi riuscita a rielaborare questa mia reazione iniziale.
Questa nuova consapevolezza di poter riconoscere le mie reazioni e spiegarle attraverso l’ansia, mi ha aiutato (e mi aiuta ancora) a trasformarle, piano piano. Per fare un esempio: qualche tempo fa ho ricevuto una mail da un mio collega di lavoro che diceva di aver bisogno di parlare con me. Era appena passata la mezzanotte e, temendo già il peggio (di aver fatto qualcosa di male sul lavoro e per questo di aver perso la sua stima per sempre e che per questo avrebbe convinto il gruppo a licenziarmi, o che so io), non chiusi occhio. Finii per mandargli un messaggio in piena notte e chiedergli se non potevamo parlarne immediatamente, altrimenti non avrei dormito. Non potevo aspettare l’indomani. Il mio corpo era in piena urgenza, avevo le palpitazioni e non potevo stare ferma.
Se mi succedesse oggi, mi direi che è l’ansia che mi fa stare così, non la situazione in sé e che per questo cercherò di calmarmi. Ma come calmarsi? Purtroppo, la prima cosa che mi è stata detta, una volta avuta la conferma medica di avere un profilo ansioso, è che della mia ansia non mi libererò mai. L’ansia tende ad essere un modus operandi. Un ansioso non potrà mai diventare improvvisamente un’anima serena e placida, ma non tutto è perduto!
La terapia cognitivo-comportamentale è uno strumento molto prezioso per chi soffre d’ansia. Come spiega lo psicologo J.E. Young:
Se state pensando a una banana, e ordinate al vostro cervello di non pensare più alla banana, constaterete per esperienza di non riuscire ad impedirvi di pensarci per i secondi seguenti questo vostro comando.
Secondo Young, cercare una via di fuga dalle preoccupazioni sarebbe controproducente: molto più costruttivo è accogliere le paure, accettarle e rielaborarle. Se è vero che non ci si può impedire di pensare a qualcosa, allora gli sforzi inutili porterebbero l’ansia e la frustrazione ad accumularsi, trasformarsi in stress e amplificare il malessere.
Young suggerisce di accettare i propri pensieri scomodi e applicare la desensibilizzazione, una pratica della terapia cognitivo-comportamentale. La desensibilizzazione consiste nel dare libero sfogo al proprio sproloquio ansiogeno interiore (preferibilmente armati di un supporto per scrivere) e in seguito rileggere il proprio scenario, fino ad assimilarlo, a ridurne mentalmente le dimensioni e la minaccia che costituisce per noi. Lasciare le paure scorrere liberamente, per la gioia del sistema nervoso.
Nella rilettura a freddo, le paure sono ridimensionate, e ci si rende subito conto di cosa è stato esagerato, reso cataclismico e invece è meno grave di quello che sembra. Spesso, già mentre si rilegge il proprio scenario fatalistico, il cervello trova soluzioni plausibili e più realistiche al problema iniziale.
Ho cominciato quindi a praticare questa tecnica, dando carta bianca alle mie paure e alle mie paranoie, ogni qualvolta mi sentissi preoccupata o minacciata da qualcosa. Ho constatato che funziona a meraviglia e che la mia mente può andare davvero lontano nell’inquietarsi e nell’ingigantire gli ipotetici effetti di una situazione (“Pagherò l’affitto in ritardo questo mese, perciò verranno a sfrattarmi e finirò a dormire sotto un ponte, i ratti mi morderanno e prenderò la rabbia, dei giovani vandali mi daranno fuoco ecc…”), davvero troppo lontano.
Spesso, rileggendo i miei scenari apocalittici subito dopo averli scritti nell’ansia più totale, mi viene da ridere e mi chiedo come abbia potuto concepire tali disgrazie per un nonnulla.
Spesso, rileggendo i miei scenari apocalittici subito dopo averli scritti nell’ansia più totale, mi viene da ridere e mi chiedo come abbia potuto concepire tali disgrazie per un nonnulla.
In conclusione, l’ansia non è un nemico invincibile: basta avere coscienza di essa per riuscire a ridimensionarla. Imparare a gestirla permette di conoscersi meglio e viceversa. Quindi, quando qualcosa vi preoccupa al punto da impedirvi di pensare ad altro, prendete carta e penna e scrivete la vostra apocalisse. Scrivete cosa avete in testa, il peggior scenario possibile. E alla fine, vedrete, quei pensieri lasceranno la presa.
FONTE:http://www.softrevolutionzine.org/2015/disturbo-ansia-generalizzato/
FONTE:http://www.softrevolutionzine.org/2015/disturbo-ansia-generalizzato/
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