Di Giorgio Masiero
Il mattino del 6 agosto 1945 alle ore 8.15 un B-29 dell’aeronautica militare americana sganciò una bomba atomica su Hiroshima. L’esplosione avvenne a 580 m dal suolo, con una potenza equivalente a 13.000 tonnellate di tritolo ed uccise sul colpo 75.000 persone, per la maggior parte donne, bambini e anziani. Circa il 90% degli edifici venne raso al suolo, tra cui tutti i 51 templi della città.
Padre Arrupe, il futuro generale dei gesuiti, si trovava nella città e racconterà: “Alle 8.15 ero nella mia stanza con un altro prete, quando improvvisamente vedemmo una luce accecante, come un bagliore al magnesio. Non appena aprii la porta che si affacciava sulla città, sentimmo un’esplosione formidabile, simile al colpo di vento di un uragano. Allo stesso tempo porte, finestre e muri precipitarono su di noi in pezzi. Salimmo su una collina per avere una migliore vista. Da lì potemmo vedere una città in rovina: di fronte a noi c’era una Hiroshima decimata. Poiché ciò accadde mentre in tutte le cucine si stava preparando il primo pasto, le fiamme, a contatto con la corrente elettrica, entro due ore e mezza trasformarono la città intera in un’enorme vampa. Non dimenticherò mai la mia prima visione dell’effetto della bomba atomica: un gruppo di giovani donne, di diciotto o venti anni, che si aggrappavano l’una all’altra mentre si trascinavano per strada. Continuammo a cercare un qualche modo di entrare nella città, ma fu impossibile. Facemmo allora l’unica cosa che poteva essere fatta in presenza di una tale carneficina di massa: cademmo sulle nostre ginocchia e pregammo per avere una guida, poiché eravamo privi di ogni aiuto umano. L’esplosione ebbe luogo il 6 agosto. Il giorno seguente, il 7 agosto, alle 5 di mattina, prima di cominciare a prenderci cura dei feriti e seppellire i morti, celebrai Messa nella casa. In questi momenti forti uno si sente più vicino a Dio, sente più profondamente il valore dell’aiuto di Dio, anche se nei fatti ciò che ci circondava non incoraggiava la devozione per la celebrazione della Messa. La cappella, metà distrutta, era stipata di feriti che stavano sdraiati sul pavimento molto vicini l’uno all’altro mentre, soffrendo terribilmente, si contorcevano per il dolore” (Remembering Hiroshima: Pedro Arrupe’s Story, 1985).
Tre giorni dopo, alle 11.02, seguì il lancio da un’altra fortezza volante di un ordigno simile su Nagasaki.Questo esplose 4 km a nord-ovest del punto programmato: l’errore salvò gran parte della città, che era protetta dalle colline circostanti. Solo 40.000 dei 240.000 abitanti di Nagasaki vennero uccisi all’istante, mentre 55.000 rimasero feriti. Per la gravità dei danni provocati all’uomo e all’ambiente, immediati, a lungo termine e permanenti; per le implicazioni morali dell’uso di armi di distruzione di massa rivolto deliberatamente contro i civili; e per il fatto che si trattò del primo e unico utilizzo in guerra di tali armi, i due attacchi di Hiroshima e Nagasaki appaiono gli episodi bellici più significativi dell’intera storia dell’umanità.
11 anni dopo, le autorità dell’università di Oxford, in Inghilterra, proposero di conferire la laurea honoris causa al primo mandante dei bombardamenti atomici, il presidente USA Harry Truman. Suscitando lo scandalo locale della massa dei professori plaudenti e quello globale dei mass media univociferanti, una giovane filosofa con un incarico di ricerca all’ateneo si dissociò dal coro, seguita da tre colleghi: si chiamava G.E.M. Anscombe. Chi era costei?
Gertrude Elizabeth Margaret Anscombe (Limerick 1919 – Cambridge 2001) è stata una delle più profonde pensatrici del XX secolo. Secondo alcuni, la più grande in assoluto tra i filosofi di sesso femminile di tutti i tempi. Ottenuta dopo il baccellierato l’ammissione all’università oxoniense, ella se ne ritirò presto a causa della “aridità filosofica” che a suo dire vi regnava, per trasferirsi a Cambridge. Qui poté seguire le lezioni di Ludwig Wittgenstein, di cui divenne l’allieva prediletta, tanto da esserne nominata esecutore testamentario per la cura e l’edizione delle sue opere, un compito notoriamente arduo per l’interpretazione del pensiero di Wittgenstein.
Per il geniale autore del Tractatus logico-philosophicus (1921), si sa, “i problemi filosofici insorgono quando il linguaggio va in vacanza” e fare filosofia significa prima di tutto curare il modo in cui usiamo le parole per presentare i concetti. Anscombe applicò la terapia analitica ed il rigore del linguaggio appresi da Wittgenstein in tutta la sua sterminata produzione filosofica, che ripercorre la storia della filosofia, la logica, l’etica, la filosofia della mente, la filosofia della religione, la filosofia della matematica e la filosofia politica. Quanto però il maestro viennese usò uno stile criptico e suggestivo, l’allieva di Limmerick si valse invece di uno chiaro e sistematico.
Presento subito al lettore, che non sia un esperto di filosofia analitica e della precisione con cui questa disseziona i concetti, due esempi del filosofare anscombiano riguardanti due aree precipue della filosofia, la gnoseologia e l’etica. Nel suo capolavoro, “Intenzione” (1957), la Anscombe critica il modo in cui i filosofi moderni (da Cartesio in poi) concepiscono la conoscenza, intendendola meramente come attività speculativa, passiva, “incorreggibilmente contemplativa”. Eppure, nemmeno la conoscenza delle nostre stesse azioni noi acquisiamo con la sola osservazione – ella evidenziò –, poiché non è con l’osservazione che conosciamo quali sono le nostre intenzioni, e tra chi osserva e chi intende e agisce c’è una differenza nella “direzione dell’adattamento” dell’azione al pensiero. Prendiamo una persona che scrive qualcosa ad occhi chiusi: forse l’esito non sarà un modello di calligrafia, ma osservando lo scritto tutti possiamo leggere e conoscere ciò che l’autore ha inteso scrivere. Ma questi come sa ciò che ha scritto? Di certo non con l’osservazione. Cosicché, ci sono due modi di conoscere, uno con l’osservazione ed uno senza: se ne trae che ci sono anche due oggetti diversi di conoscenza, uno dei quali non usa il metodo empirico. Elementare. I neuroscienziati a caccia dell’Io volente sono serviti.
Quanto all’etica, il fraintendimento della filosofia moderna non è minore. Concetti come dovere morale,moralmente giusto e moralmente sbagliato si sono ridotti oggi, per Anscombe, a rimasugli senza senso dell’antica idea giudaico-cristiana di Dio che detta la legge. Tolto Dio o tolta la differenza qualitativa naturalmente posta tra l’uomo e la bestia, stante nell’aristotelico concetto di “virtù”, dovere è diventata una parola dalla forza meramente ipnotica, “mesmerica”. I filosofi moderni, tuttavia, hanno cercato di dare contenuti ai suddetti concetti etici sradicati (da Dio e dalla natura umana) e, non riuscendovi, si sono indotti a fornire “un contenuto alternativo, alquantotorbido”, come ad esempio che l’azione giusta sarebbe quella che produce le migliori conseguenze possibili. Sebbene dichiaratamente differenti, di fatto tutte le filosofie morali contemporanee conducono a questo “consequenzialismo”, secondo un termine coniato da Anscombe e divenuto comune in etica. Ma, se così fosse, a proposito di un’azione malvagiamente perseguita ed involontariamente produttiva d’una qualche utilità, dovremmo dire piuttosto che è stata onesta… Con un collega che così interpretava l’etica, Anscombe sbottò: “Io non voglio discutere con lui, mostra una mente corrotta”.
La “Dragon Lady”, come colleghi e studenti iniziarono a chiamare la nostra eroina mischiando ammirazione a British understatement, cercò la base dell’etica laica nel ritorno ai concetti aristotelici della ragion pratica e della virtù e scoprì l’impossibilità di fondare la filosofia morale senza la filosofia della mente e senza indagare concetti come “azione”, “intenzione”, “piacere” nel loro significato non etico. La conversione al cattolicesimo, avvenuta insieme ad un altro filosofo analitico, Peter Geach, che sarebbe diventato suo marito, innervò il suo aristotelismo con il tomismo. La coppia, oltre a 7 figli, generò un gioiello della filosofia contemporanea: “Three philosophers: Aristotle, Aquinas, Frege” (1976). A questo testo si deve molto se la metafisica è oggi entrata di pieno diritto nella filosofia analitica.
Quando nel 1956 fu avanzata ad Oxford la proposta di conferire a Truman la laurea onorifica in conseguenzadella brillantissima chiusura della guerra in Asia provocata dalla sua decisione di usare le armi atomiche contro il Giappone, la Anscombe opponendosi non fece altro che applicare la propria dottrina etica contro il consequenzialismo. Ed usò un suo diritto-dovere, perché come docente in quell’antica università faceva parte dellaCongregation (l’istituzione medievale che governa l’università), abilitata ad approvare i riconoscimenti a personalità esterne. Così, davanti a tutto il personale accademico ed ausiliario, ella si alzò, recitò la formula latina per chiedere la parola al Chancellor e, avutala, intervenne per motivare il suo dissenso. Illustrò i massacri di Hiroshima e Nagasaki, paragonò Truman a Nerone, Gengis Khan e Hitler, e interrogò i magistri oxoniensi a quali altri mostri sterminatori progettassero di conferire la laurea honoris causa in futuro…
Prima delle considerazioni etiche, Anscombe operò, come si deve in filosofia analitica, una divisione al bisturi tra “merito” e “distinzione”, per spiegare che non basta essere un personaggio distinto, a cagione del proprio incarico di spicco, per meritare un titolo onorifico. Per il capo di una nazione svolgere con cura il suo prestigioso lavoro non costituisce titolo di merito maggiore che per ogni altro lavoratore svolgere onestamente il proprio, umile quanto si vuole. Quanti bravi falegnami e bottegai hanno ricevuto o riceveranno l’honoris causa da Oxford? Pura Etica Nicomachea! Poi la Dragon Lady entrò nello specifico dei modi usati dal presidente Truman nello svolgimento della sua missione nipponica.
Innanzitutto c’è un principio morale che fu violato: non uccidere l’innocente per alcun fine. Richiamando la Lettera paolina dove si legge: “Forse, come alcuni ci calunniano di predicare, dovremmo fare il male perché ne derivi un bene? Su costoro cade una giusta condanna” (Rm. 3, 8), la Anscombe attaccò: “Per me, scegliere di uccidere l’innocente come mezzo per perseguire qualsiasi tipo di fine è sempre assassinio, e l’assassinio è una delle peggiori azioni umane. La proibizione di uccidere deliberatamente i prigionieri di guerra o la popolazione civile non è una bazzecola come il regolamento della boxe: la sua forza non dipende dall’essere stata promulgata in una legge parlamentare, o dall’essere stata scritta, convenuta e sottoscritta dalle parti interessate. E quando dico che scegliere di uccidere l’innocente come mezzo per il proprio fine è assassinio, sto dicendo qualcosa che dovrebbe essere generalmente accettato come corretto. Potreste chiedermi qual è la mia definizione di ‘innocente’. Ve la darò dopo. Ma qui non è necessario, perché con Hiroshima e Nagasaki noi non siamo davanti ad un caso limite: nel bombardamento di queste città si è certamente deciso di uccidere l’innocente per perseguire un fine”. Del resto, non era stato proprio il Presidente USA in carica nel 1939, allora nella sua qualità di comandante in capo di una potenza neutrale, a sollecitare allo scoppio della guerra in Europa l’assicurazione di tutti i paesi belligeranti che le popolazioni civili sarebbero state risparmiate?
È vero che Dio, o l’interdipendenza cieca di tutti gli eventi dell’universo, può trasformare il male da noi operato in bene: ma noi non siamo Dio, né controlliamo l’intreccio degli eventi dell’universo! Noi non possiamo fare il male per conto di Dio o del caso, né il bene che eventualmente ne deriva s’iscrive al nostro merito. Ciò che facciamo, con piena avvertenza della mente e deliberato consenso della volontà, non è mai fatto né da Dio né dall’entanglement fisico, e quel che ne deriva non viene da noi.
In secondo luogo, qual è il fine per cui sono state perpetrate le due stragi degli innocenti dell’agosto ‘45? Qui Anscombe vide uno sfregio sgraziato, quasi invisibile, nella carrozzeria fiammante della macchina dell’informazione allestita dalla disinformazione politica; percepì una piccola nota stonata, quasi impercettibile, nella marcia trionfante concertata dai suonatori della fanfara yankee. Nell’esaminare il fine, Anscombe non si affidò alla dietrologia, non speculò se la decisione di sganciare le atomiche (l’una all’uranio e l’altra al plutonio) fosse stata intrapresa col fine militare di collaudare i nuovi tipi di arma, o col fine politico di mandare un messaggio alquanto preciso agli alleati rivali, i sovietici, sulla potenza americana in vista della spartizione dell’Europa, ecc. No, Anscombe attaccò direttamente il motivo ufficiale addotto dall’amministrazione USA, vale a dire il fine di salvare un maggior numero di vite che il prolungarsi della guerra col Giappone avrebbe inevitabilmente sacrificato, date le condizioni.
È questo il punto chiave: date le condizioni. Prima però di analizzare le condizioni date, Anscombe volle mettere in chiaro una cosa: lei non è un’anima bella mossa da sentimentalismi, né tantomeno una pacifista; anzi il pacifismo è una “falsa dottrina”, poiché lo stato ha “l’autorità di ordinare deliberatamente di uccidere al fine di proteggere la sua gente o di contrastare terribili ingiustizie […], perché la legge senza la forza è inefficace, e gli esseri umani senza legge sono miserabili”.
Le condizioni date (dagli americani ai giapponesi) erano, semplicemente, una resa senza condizioni:
- Per gli americani il problema non era più, da molto tempo, di sconfiggere i giapponesi. La guerra si era svoltata alle Midway (4-6 giugno ’42), allorché la distruzione della flotta nipponica aveva spalancato le porte all’invasione delle isole del Sol Levante, come e quando gli americani avessero voluto, completati i preparativi. E questi avevano subito un’accelerazione con la disfatta nazista consumatasi nei primi 4 mesi del ’45, che permetteva finalmente di concentrare lo sforzo militare a Oriente.
- Né per gli americani si trattava di convincere i “gialli” ad un armistizio per trattare la pace. Al contrario, nonostante tutti i tentativi dei giapponesi, perseguiti anche tramite la mediazione russa, erano gli americani a non voler trattare la pace.
- Per gli americani, prima della pace, doveva essere vendicato il proditorio attacco di Pearl Harbor (7 dicembre ’41). E ciò non poteva avvenire senza un attacco altrettanto vigliacco, ma cento volte più pesante, a rimarcare le proporzioni reali dei contendenti. Quale scelta più felice di Hiroshima, nella cui baia l’ammiraglio Isoroku Yamamoto aveva 4 anni prima brindato al successo del suo piano alle Hawaii?
- Per gli americani, la parola pace non aveva il significato autentico di contesto armonico pattuito tra popoli, ma piuttosto quello della pax di tacitiana memoria, come equilibrio unilateralmente imposto di egemonia assoluta, in questo caso USA, su tutta l’area pacifica, dall’America alla Cina passando per l’erigendo protettorato sul Giappone assoggettato.
Insomma, lo strombazzato “maggior numero di vittime salvate” va calcolato non rispetto al fine della pace,che in Asia era a portata di mano da mesi senza più colpo ferire, ma piuttosto al fine del riconoscimento di una potenza illimitata, passante attraverso l’umiliazione dell’avversario.
A conclusione del suo discorso, Anscombe espresse la propria solidarietà al Censor del collegio di Santa Caterina (cui competeva redigere le motivazioni della laurea a Truman), per il pesante incarico di dover dimostrare che “un paio di massacri a credito di un tizio non sono una ragione sufficiente per negargli l’onorificenza; un ragionamento, forse, che non sarebbe stato bene accolto a Norimberga” e si scusò di non poter partecipare alla cerimonia di consegna del titolo: “Avrei paura di partecipare al rito, per l’eventualità che la pazienza di Dio finisse improvvisamente”.
Commenti
Posta un commento
Partecipa alla discussione