Armando Aste è nato a Isera, in provincia di Trento, il 6 gennaio 1926. Ha svolto la sua attività alpinistica soprattutto nelle Dolomiti, dove ha risolto numerosi problemi di estrema difficoltà: prime ascensioni assolute, prime invernali e prime solitarie di livello internazionale sono il curriculum di questo alpinista che per umiltà e modestia non è mai giunto alla ribalta ed è poco noto al pubblico non alpinistico. Forte di una profonda fede religiosa, Aste si è avvicinato alla montagna con grande rispetto per trarre esperienze valide alla propria vita spirituale.
“Sono orgoglioso della mia fede che considero l’unica vera ricchezza che possiedo. Al di là di ogni falsa modestia, so di essere un uomo limitato ma ho imparato che credere è più importante di sapere, di capire e di qualsiasi impresa alpinistica”.Tra le sue imprese più significative vanno citate la prima salita solitaria della via Couzy sulla parete nord della Cima Ovest di Lavaredo.
Fonte: Trento Film Festival
Armando Aste, cercando la bellezza in montagna
Leggenda vivente dell’alpinismo, racconta la propria vita: “La montagna è stata maestra di vita, mi ha permesso di crescere e conoscermi” di Vittorino Mason
Oggi viviamo una fase epocale dove valori, fede, ideali e sogni sono venuti meno. È come l’uomo avesse perso il coraggio e la forza per esplorare, per dare senso al suo cammino, a quel breve passaggio che è la presenza sulla terra. Così, quando ti trovi di fronte a uomini come Armando Aste, che hanno fatto della propria fede una ragione di vita, ti trovi spiazzato, per non dire in preda ad un senso di stupore ed ammirazione.
Lui, che ancora oggi recita il rosario, potrebbe essere deriso, snobbato da chi intende l’uomo forte come l’impavido che non si ferma di fronte a niente, che non cede al pianto o al sentimentalismo. Ma proprio la fede gli ha dato la forza, l’ha guidato e preservato in tutta la sua vicenda alpinistica. Accademico e Socio Onorario del CAI, Armando è entrato a diritto nella storia dell’alpinismo italiano. Ma questo per lui non è un motivo di vanto. Una visita a casa sua di un paio di anni fa mi fece riflettere: un alpinista rimasto solo, giunto al capolinea della sua vita, come si prepara ad affrontare il grande viaggio? La maggior parte di noi, finché il fisico ci sorregge, non vede limiti, tutto sembra possibile perché la forza e il coraggio sono nostri alleati. È per questo che si esorcizza la vecchiaia, la malattia, la morte, quel giorno in cui giocoforza si dovrà smettere di fare quel che si è sempre fatto. Cosa succederà allora, quando si tornerà a vestire i panni di uomini come tutti gli altri, con un corpo che lentamente, ma inesorabilmente decade? Quanto coraggio ci vuole per affrontare questa avventura? Basterà aver scalato tutti gli ottomila e superato le pareti più difficili del mondo per riuscire a trovare ancora forze? Di fronte a questi quesiti l’uomo-alpinista rimane appeso all’appiglio, continua imperterrito la sua scalata verso il cielo, finge di non vedere e sentire, s’aggrappa alla roccia e si sforza di credere che mai gli sarà preclusa la via. L’alpinista è un uomo con i piedi in aria ed è quando tocca il suolo che iniziano i suoi problemi. La sua casa, immersa in un sobborgo popolare di Rovereto, è come una stanza minimalista: tutto è ridotto all’essenziale. Lui non si sente mai solo, c’è Dio a fargli compagnia, e un gatto. Una donna delle pulizie lo aiuta nei mestieri più faticosi, per il resto si arrangia, nonostante il medico gli abbia consigliato riposo. Capelli bianchi, una serenità negli occhi, seduti uno di fronte l’altro, Armando si racconta.
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Lui, che ancora oggi recita il rosario, potrebbe essere deriso, snobbato da chi intende l’uomo forte come l’impavido che non si ferma di fronte a niente, che non cede al pianto o al sentimentalismo. Ma proprio la fede gli ha dato la forza, l’ha guidato e preservato in tutta la sua vicenda alpinistica. Accademico e Socio Onorario del CAI, Armando è entrato a diritto nella storia dell’alpinismo italiano. Ma questo per lui non è un motivo di vanto. Una visita a casa sua di un paio di anni fa mi fece riflettere: un alpinista rimasto solo, giunto al capolinea della sua vita, come si prepara ad affrontare il grande viaggio? La maggior parte di noi, finché il fisico ci sorregge, non vede limiti, tutto sembra possibile perché la forza e il coraggio sono nostri alleati. È per questo che si esorcizza la vecchiaia, la malattia, la morte, quel giorno in cui giocoforza si dovrà smettere di fare quel che si è sempre fatto. Cosa succederà allora, quando si tornerà a vestire i panni di uomini come tutti gli altri, con un corpo che lentamente, ma inesorabilmente decade? Quanto coraggio ci vuole per affrontare questa avventura? Basterà aver scalato tutti gli ottomila e superato le pareti più difficili del mondo per riuscire a trovare ancora forze? Di fronte a questi quesiti l’uomo-alpinista rimane appeso all’appiglio, continua imperterrito la sua scalata verso il cielo, finge di non vedere e sentire, s’aggrappa alla roccia e si sforza di credere che mai gli sarà preclusa la via. L’alpinista è un uomo con i piedi in aria ed è quando tocca il suolo che iniziano i suoi problemi. La sua casa, immersa in un sobborgo popolare di Rovereto, è come una stanza minimalista: tutto è ridotto all’essenziale. Lui non si sente mai solo, c’è Dio a fargli compagnia, e un gatto. Una donna delle pulizie lo aiuta nei mestieri più faticosi, per il resto si arrangia, nonostante il medico gli abbia consigliato riposo. Capelli bianchi, una serenità negli occhi, seduti uno di fronte l’altro, Armando si racconta.
Com’è nata la passione per la montagna?
«Sono stato allevato da mio nonno mugnaio, vivevo in un maso della Val Cavazzino, le montagne le vedevo dal basso, poi crescendo sono sempre andato a fare passeggiate, ma un giorno un forte alpinista delle mie parti mi invitò a vedere la Guglia di Castelcorno, mi colpì molto e un po’ di anni dopo, forte della mia preparazione atletica la salii senza corda e in solitaria. Fu così che i ragazzi di Rovereto che arrampicavano su quella guglia mi invitarono ad unirmi a loro che poi nel ’48 formarono il Gruppo Roccia Ezio Polo.»
Quanto ti è stato utile l’alpinismo per affrontare le difficoltà della quotidianità?
«Mi ha aiutato a crescere e conoscermi, ad accettare tutti i problemi della vita e renderla più bella. Quand’ero giovane anch’io ero ambizioso e volevo essere più bravo degli altri; le imprese di Preuss o Comici mi affascinavano, poi ho capito che sopra i monti c’è il cielo, la vetta più importante da raggiungere. Ma per me le cose che hanno contato di più sono state la carità, l’amore, la famiglia e l’amicizia.»
Cosa cercavi in montagna?
«La bellezza, perché vedo l’alpinismo come la sintesi della bellezza, dell’intuizione e del gesto atletico che traduce concretamente il pensiero e l’azione. C’era poi la rincorsa alla felicità che poi scemava una volta terminata la via. Gli alpinisti forse non se ne rendono conto, ma in quell’andare in alto, cercando di andare oltre, diventano leggeri, spiccano il volo, ripetono il gesto di Icaro. »
Tra le tue vie qual è che ritieni più bella e perché?
«Ogni volta che aprivo una via quella era la più bella. Poi se vogliamo, forse la via dell’Ideale è quella che ricordo con più piacere; per l’ambiente, per l’interesse storico, per la roccia ed altri motivi. Ma la più bella forse è stata la prima che ho aperto nel ’53 alla Est della Cima Sud di Pratofiorito, una via di 400 metri, dove ho fatto anche il mio primo bivacco.»
E quella più dura?
«Forse quella della Madonna Assunta al Piz Serauta; c’è un passaggio tremendo dove Bruno De Donà durante la ripetizione è volato quattro volte prima di riuscire a superarlo.»
C’è stato un compagno di cordata con il quale ti sei trovato meglio?
«Tutti. Erano gli altri che mi cercavano per legarsi con me. Mi sono tutti capitati, forse mandati dalla provvidenza perché con ognuno ho avuto un ottimo rapporto e siamo diventati amici. Ma se proprio vogliamo parlare da un punto di vista alpinistico e tecnico, quello con il quale ho condiviso le vie più belle è stato Franco Solina. Lui compensava tutte le qualità che io non avevo.»
Il momento più bello che hai vissuto in montagna?
«La prima spedizione in Patagonia assieme al Cai di Monza che mi accolse come uno di loro. Siamo stati via 4 mesi e abbiamo salito la Torre Sud e ripetuto la via alla Torre Centrale. Ma non posso non citare anche la Via della Concordia alla Cima d’Ambièz. Io ero con il Miorandi e in rifugio, con lo stesso intento c’erano Oggioni ed Aiazzi, invece di litigare perché loro erano arrivati prima, unimmo le forze e con due cordate distinte, a comando alternato, aprimmo la via che sancì anche la nostra amicizia.»
Un’incompiuta?
«La Ovest della Busazza, quella che poi ha realizzato Renato Casarotto. Lì ho fatto otto bivacchi, in vari tentativi, e giunto a due tiri dalla cima sono tornato indietro impressionato dalla grande friabilità della roccia.»
E Casarotto alpinista?
«Della sua epoca il più forte di tutti, anche di Bonatti, ma doveva fermarsi in tempo, si è spinto troppo in là ed era inevitabile che prima o poi finisse com’è finita. Il suo sbaglio più grande è stato quello di vivere solo per la montagna. Bisogna avere il senso della misura. In montagna non sono mai arrivato al mio limite, ho sempre avuto un margine di sicurezza per preservare il dono della vita.»
Dopo di te c’è stato qualcuno che ha seguito il tuo modo di praticare l’alpinismo?
«Direi Ivo Rabanser, ma ancor più Elio Orlandi, un grande! Ha fatto delle cose in montagna di assoluto valore, ma è anche un artista, regista, persona sensibile e con una grande umanità.»
Senti ancora Cesare Maestri?
«Sì, spesso. Credo di essere uno dei pochi amici che gli sono rimasti. Anche se per alcuni punti di vista siamo diametralmente opposti, ci sentiamo molto legati. Abbiamo stima ed ammirazione reciproca e per me lui è stato uno stimolo in montagna, soprattutto per la sua determinazione. Allora eravamo visti come antagonisti, ognuno arrampicava per conto suo perché avevamo una buona dose di ambizione: nessuno di noi avrebbe fatto da secondo all’altro. A parte questo Cesare lo sento come un fratello, gli voglio bene perché ha un cuore grande, è un generoso.»
Come vedi l’alpinismo oggi? L’approccio e il modo di praticarlo sono cambiati?
«Io appartengo ad un’epoca che è seguita a gente come Cassin, Soldà, Carlesso. Sai l’alpinismo è in continua evoluzione, ma bisogna vedere se anche l’etica è migliorata. Avrei dei dubbi. Gli arrampicatori di oggi sono fortissimi, ma non hanno una cultura dell’alpinismo e della montagna. Forse manca la condivisione, la solidarietà, il senso della rinuncia. I giovani di oggi sono figli di questo tempo: guardano al concreto, fanno la via, ma non cercano qualcos’altro di intrinseco, dei valori, altri significati, non cercano di andare al di là della parete, della roccia.»
Quanto importante è stata per te la fede?
«Fondamentale. Mi ha spinto quando potevo andare e frenato quando avrei rischiato troppo. Mi ha insegnato a rispettare i confini, a non andare oltre un certo limite, ad avere prudenza. Ogni volta che mi apprestavo ad aprire una via, avevo la consapevolezza di potercela fare, una sorta di benedizione.»
Te la sentiresti di dare un consiglio ai giovani che frequentano la montagna?
«Nel libro autobiografico “Pilastri del cielo” c’è il messaggio che ho voluto lasciare. Direi poi che uno deve fare ciò che vuole, in montagna come nella vita, ma prima dell’alpinismo ci sono molte altre cose. Non si può vivere solo per la montagna, ma anche per gli altri: rinunciare al proprio orgoglioso piacere egoistico è più importante.»
Quest’anno si festeggiano i 150 anni della fondazione del Club Alpino Italiano. C’è qualcosa che vorresti venisse ricordato di questa lunga storia?
«La storia dell’alpinismo, prima della retorica delle parole, è stata scritta dai fatti, dalle cose concrete. E se c’è un valore, un ideale da perseguire, è quello di andare oltre, di fare sempre un passo avanti: sia da un punto di vista tecnico, morale e spirituale. Quello che in montagna non potrà mai essere scalfito è il perché si va, quello è dentro ognuno di noi, è una spinta e una ricerca che non ha un unico comune denominatore.»
TITOLO ORIGINALE:"Armando Aste,cercando la bellezza in montagna"
Fonte: Montagne 360 – Agosto 2013,http://www.cai.it/uploads/media/Montagne360_agosto.pdf
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