Di Flavia Trupia e Andrea Granelli
Sii spontaneo! affermava Gregory Bateson per indicare una richiesta performativa di tipo paradossale, il cui fine non era l’agire ma entrare in una nuova forma di consapevolezza. È proprio la richiesta di un’azione impossibile (essere spontanei su comando…) che ci trasforma, che ci fa capire cose nuove, che ci scuote dall’intorpidimento.
L’utilizzo che ne fa la scuola di Palo Alto (quella di Paul Watzlawick, D.D.Jackson e altri) è l’invio di messaggi paradossali con la prescrizione del sintomo per sbloccare situazioni nevrotiche. La tesi è che il comportamento patologico non esiste nell’individuo isolato, ma è un tipo di interazione patologica fra individui, cioè è la comunicazione che genera patologie, per esempio mediante messaggi patologici (paradossali) che generano – grazie alla richiesta di ordini contradditori – “doppi legami” che spesso si risolvono nella follia.
La parola che cura, la parola che trasforma, la parola che spinge all’azione, la parola che profetizza.
In tutti questi casi non basta il contenuto ma è fondamentale anche il modo in cui la parola viene pronunciata, l’azione, i movimenti e gli atteggiamenti di colui che la pronuncia. Pensiamo alle posture e i rituali degli psicoanalisti, pensiamo alle performance di Lacan nei suoi famosi seminari, pensiamo ai gesti dei grandi predicatori domenicani e francescani e al ruolo centrale del pulpito (“ma da che pulpito …”). Ma pensiamo anche alle convulsioni della Pizia che precedevano le sue profezie e quanto questo contesto comunicativo influiva e rendeva “autorevole” il messaggio dell’oracolo. Immaginarsi gli stessi contenuti veicolati su un foglio ben scritto e ordinato da un signore compassato dopo aver degustato una tazza di tè sarebbe impossibile.
Siamo quindi entrati nell’ultima delle cinque parti del canone ciceroniano: l’actio, che oggi tendiamo a chiamare performance. I Greci la chiamavano upòcrisis, e cioè il recitare il discorso come un attore (è la stessa radice di ipocrita). Consiste nel fondamentale pacchetto di skill e attributi fisici che consentono al buon oratore di “agire” il suo discorso, presentandolo con l’accompagnamento di fattori moderatamente scenici: il gesto, l’atteggiamento del corpo, l’abile regia degli effetti sonori, con parole pronunciate talora smorzando i toni, talaltra alzandoli fino a punte di massima intensità.
Spesso le espressioni facciali dell’oratore e il tono della sua voce sono lo specchio dell’anima (pensiamo ad esempio a quando al relatore si “rompe” la voce e incomincia a parlare con il cuore). Chi ascolta, soprattutto in politica, tenta di leggere il volto dell’oratore per vedere se le sue parole sono autentiche, sentite, se rispecchiano una interiorità conforme alle enunciazioni, o se invece non rivelano frode, inganno, o anche solo mancanza di sincerità. Il corpo comunica e persuade; il canone pittorico ha infatti sempre raffigurato i grandi oratori e predicatori come figure calme, in pose plastiche, e con uno sguardo nobile, contrapposti al volgo che ascolta, instabile, infiammabile, dagli umori convulsi e disordinati.
Ci sono tante discipline dai nomi oscuri, che studiano le tecniche della buona performance oratoria, tecniche he spesso utilizziamo in maniera inconsapevole. Pensiamo alla prosodia (che studia l’intonazione, il ritmo, la durata e l’accento del linguaggio parlato), alla prossemica (che studia le distanze che sussistono tra gli attori di qualche rapporto sociale, sia esso di comunicazione o di altro genere) oppure alla cinesica (che studia il linguaggio del corpo, intendendo il gesto come una qualunque azione capace di inviare un segnale visivo a un osservatore e di comunicargli una qualsiasi informazione).
Ma cosa rimane di tutto ciò nell’era della Rete, dove le abilità oratorie sembrano sempre più spesso sostituite da presentazioni Powerpoint, filmati proiettati in absentia in grandi sale, effetti visivi e sonori di ogni sorta concepiti da designer super-specializzati?
Una delle sfide comunicative contemporanee è dunque come rendere più efficace – grazie agli strumenti digitali – la performance comunicativa senza perdere in naturalezza e umanità. La cosa peggiore è usare talmente tanta tecnologia e contenuti multimediali da risultare addirittura inutile come presentatore … allora tanto vale vedersi quella presentazione su Youtube in altro momento, quando abbiamo un poco di tempo…
Nella pratica – però – i leader sono sempre più esposti a forme tradizionali di comunicazione, dove devono abbandonare le loro suggestive corazze digitali e fare leva sulla loro upòcrisis senza però cadere nella ipocrisia: comunicazioni tv brevissime che richiedono grande preparazione e memorizzazione, interventi botta e risposta in tempo reale, negoziazioni estenuanti e lunghissime dove si avanza a piccoli passi, giochi dialettici dove si viene bersagliati – “in gabbia” – da interlocutori maligni che cercano solo il punto debole.
Anche quando possiamo usare i nostri proiettili digitali (i bullet di PowerPoint), dobbiamo saper bilanciare quanto è scritto nelle slide e quanto vi aggiungiamo verbalmente, dobbiamo padroneggiare l’arte di parafrasare con parole semplici e di riassumere con efficacia, l’abilità di fare le transizioni da una tavola alla successiva …. ma soprattutto dobbiamo essere naturali – dote ancora più apprezzata negli oratori sofisticati – suggerendo piena coerenza tra ciò che si dice e ciò che si fa, tra il logos e il bios dicevano gli antichi Greci.
Oltretutto Powerpoint è sempre meno efficace. Sarah Lloyd-Hughes, nel suo How to be Brilliant at Public Speaking: Any Audience. Any Situation osserva che questo standard di presentazione incomincia a essere controproducente: «When the brain has seen a format so many times, it switches off. And your message is lost».
Ma la cosa più importante di ogni comunicazione pubblica è iniziare con il piede giusto. Il punto più delicato è proprio l’esordio, come presentarsi al pubblico e attivare la sua attenzione e benevolenza.
In un esperimento condotto da Kyle Emich della Fordham University, e riportato su Harvard Business Review (Start Your Next Meeting with a Joke, ottobre 2014), quando si inizia la riunione con una battuta (denotando e diffondendo buon umore), aumenta il coinvolgimento e la capacità creativa (ad esempio nel risolvere un problema). Questo perché è più probabile che chi è di buon umore condivida le proprie conoscenze e sia aperto alla novità costruttiva. Oltretutto un clima sereno e divertito abbassa le barriere, le difese e soprattutto i pregiudizi.
In un esperimento condotto da Kyle Emich della Fordham University, e riportato su Harvard Business Review (Start Your Next Meeting with a Joke, ottobre 2014), quando si inizia la riunione con una battuta (denotando e diffondendo buon umore), aumenta il coinvolgimento e la capacità creativa (ad esempio nel risolvere un problema). Questo perché è più probabile che chi è di buon umore condivida le proprie conoscenze e sia aperto alla novità costruttiva. Oltretutto un clima sereno e divertito abbassa le barriere, le difese e soprattutto i pregiudizi.
La precettistica degli esordi degli antichi retori conteneva minuziose elencazioni degli accorgimenti da adottare per attrarre l’attenzione dell’uditorio, per indurlo a seguire i ragionamenti nelle loro pieghe più riposte e a essere benevolo verso l’oratore. Ad esempio – secondo Aristotele – di fronte ad ascoltatori competenti del tema non c’è bisogno di proemio: bisogna entrare subito, senza indugio, in medias res.
A un oratore prestigioso Quintiliano proponeva invece di confessare la propria inadeguatezza, di dichiararsi «incapace, inesperto, impari per ingegno ai patroni della parte avversa». È il topos dell’affettazione di modestia, diffusissimo in tutte le letterature e ritenuto psicologicamente molto efficace nell’oratoria perché «c’è un moto naturale di simpatia per chi si trovi in difficoltà» ricordava Quintilliano. Un esempio famoso e recente di questa tecnica (che i latini chiamavano excusatio propter infirmitatem – dichiarazione esplicita di inferiorità dell’oratore) ci viene da Steve Jobs nel suo Commencement Address “Stay hungry stay foolish” pronunciato all’Università di Stanford nel 2005: «Sono onorato di essere con voi oggi, per la vostra laurea in una delle migliori università del mondo. Io non mi sono mai laureato. A essere sincero, questa è la cosa più vicina a una laurea, per me».
Un altro aspetto fondamentale di un’efficace performance comunicativa è l’uso appropriato del “tempo”. Sono quattro le dimensioni del tempo che hanno a che fare con la comunicazione:
- la durata del discorso: idealmente il più breve possibile;
- il ritmo dell’intervento: musicale, armonico e “anticipabile”, con il climax verso la fine; c’è molto da imparare dalla poesia e dalla composizione musicale;
- le pause, per prendere fiato, rallentare, anche per fissare i concetti e riorganizzare il pensiero; tanto si è scritto sull’”eloquenza del silenzio”, sorretta solo dai poteri della performance;
- il kairòs, saper cogliere il tempo opportuno.
I sofisti hanno creato la retorica in quanto arte del discorso persuasivo, facendone l’oggetto di un insegnamento sistematico e globale, fondato su una visione del mondo concreta e non metafisica. A loro va anche il merito di aver insistito sull’importanza del kairòs l’occasione propizia che bisogna cogliere nel fluire incessante delle cose; in altre parole il senso dell’opportunità – quanto intervenire, quando replicare, … – anima di ogni retorica in atto. Se il momento non è opportuno, anche il discorso meglio costruito non ha impatto. Spesso ciò dipende anche dalle caratteristiche e predisposizioni di chi ci ascolta. Interessante a questo proposito l’affermazione di Gesù riportata nel Vangelo di Giovanni: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso».
Uno dei fenomeni più interessanti nati dalla cultura digitale che rimette al centro l’actio è ted.com, il cui acronimo sta per Technology, Entertainment, Design. Questa realtà organizza da oltre trent’anni conferenze in tutto il mondo. Più che conferenze, vogliono essere delle conversazioni (talk) e il ruolo dell’organizzazione non è tanto logistico, quanto progettuale, strategico e di controllo della qualità. Il suo principale prodotto è una speaking platform che indica come organizzare questi eventi. Il fine ultimo di TED è infatti la creazione di un vero e proprio movimento auto-organizzato in grado, ovunque nel mondo, di progettare e gestire eventi in cui si producono idee che valga la pena raccontare, condividere, diffondere. Quando, infatti, Chris Anderson acquisì TED, oltre a creare il metodo e il processo che oggi conosciamo, mutò il payoff della società (e quindi la sua missione) in «ideas worth spreading». Il successo è stato straordinario e planetario.
TED è, nei fatti, diventato l’agorà della moderna oratoria e il suo format unisce le tecniche tradizionali del discorso davanti a un pubblico con le più sofisticate riflessioni di retorica per il digitale e nasce come reazione all’uso spregiudicato di PowerPoint, poiché la gente è sempre più “tired of speakers who gave ‘old school’ PowerPoint presentations.” La sua notorietà deriva soprattutto da coloro che consultano i TED Talk sulla Rete.
Il know-how accumulato in trent’anni è stato codificato in diverse metodologie, e riassunto in dieci comandamenti (con un evidente richiamo biblico …); peraltro anche l’acronimo TED richiama il dieci (TEN) …
Vediamoli – nella nostra traduzione – perché rappresentano una summa di buon senso retorico:
- Non devi semplicemente tirare in ballo il tuo solito discorsetto
- Devi creare dei grandi sogni, parlare di cose meravigliose o condividere qualcosa che non hai condiviso prima
- Devi mostrare la tua curiosità e la tua passione
- Devi raccontare una storia
- Devi sentirti libero di commentare liberamente i discorsi degli altri oratori per il piacere delle connessioni ispirate o della squisita controversia
- Non devi sfoggiare il tuo ego; sii vulnerabile: parla dei tuoi fallimenti allo stesso modo dei tuoi successi
- Non vendere dal palco, né la tua azienda, né i tuoi dei, né i tuoi scritti, né il tuo bisogno disperato di finanziamenti: lasciati trasportare nella profonda oscurità
- Devi ricordare per tutto il tempo: la risata è Dio
- Non devi leggere il discorso
- Non devi rubare il tempo al prossimo relatore
Questo decalogo è una sintesi molto pratica, e adattata allo spirito del tempo, della manualistica retorica di stampo classico. Un punto forse di distacco rispetto all’approccio più tradizionale dipende proprio dalla dimensione volutamente conviviale e interattiva che la parola talk vuole richiamare rispetto al discorso. E infatti Anderson, in un articolo scritto per Harvard Business Review (How to Give a Killer Presentation, giugno 2013), punta molto sullo storytelling e afferma che gli uomini desiderano intensamente ascoltare storie. Suggerisce pertanto di adottare la metafora del viaggio e di costruire conversazioni che conducano l’audience lungo un viaggio, dove deve essere chiaro non solo il percorso ma il punto di partenza e quello di arrivo. Il richiamo alle riflessioni di Joseph Campbell sul viaggio dell’eroe come storia matrice di tutte le storie è evidente. Il viaggio ci avvince, ci coinvolge e soprattutto ci trasforma. E Anderson afferma: «A successful talk is a little miracle, people see the world differently afterward».
Dietro queste regole vi è il credo del suo fondatore: buoni oratori non si nasce, si diventa; o detto in modo più efficace dal grande filosofo, scrittore e poeta statunitense Ralph W. Emerson, «All the great speakers were bad speakers at first». Per questo TED può essere considerata una delle più grandi palestre della retorica contemporanea, dove studiare e imitare i grandi retori dell’era digitale. E per questo motivo il retore (o meglio communication coacher) Carmine Gallo ha dedicato a questo tema addirittura un libro: Talking Like TED: The 9 Public-Speaking Secrets of the World’s Top Minds.
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