Libertà sociale e egualitarismo nel pensiero di William Godwin
Di Nico Berti *
L’uguaglianza godwiniana non è fondata sul presupposto di un
ipotetico stato orginario del genere umano, dal momento che viene
negata l’idea stessa di natura come concetto antropologicamente
definibile.
Il termine natura è ancora più indefinito e indefinibile. Le sole cose che
possono ragionevolmente comporre la natura o la costituzione umana sono:
la nostra struttura fisica, che pure è suscettibile di modificazioni in
infinite varietà; gli appetiti e le impressioni che da essa derivano; e la
capacità di combinare idee e trarre conclusioni.
L’uguaglianza deve dunque fondarsi sull’ immediate indiscutibile
constatazione secondo cui ogni uomo, sapendo riconoscere i principi
inalterabili della verità-e dunque della giustizia-partecipa ipso facto di questa
superiore condizione che lo rende, appunto, equivalente rispetto ad ogni altro
essere umano, visto che non c’è «nell’umanità una disparità tale da autorizzare
un uomo a tenere altri in soggezione».
L’uguaglianza non è di per sé il termine di riferimento principale per
delineare un corretto rapporto tra società e individuo. Proprio perché, come
abbiamo visto, si tratta di uguaglianza morale, cioè di una sostanziale
equivalenza etica fra gli uomini, questi vanno giudicati e trattati secondo «i
loro meriti e le loro virtù».
Il valore centrale è dunque la giustizia, questo supremo principio generale
fondato sulla «premessa dell’uguaglianza morale dell’umanità» perché «siamo
tutti partecipi di una natura comune, e le stesse cause che contribuiscono al
bene di uno, contribuiscono al bene di un altro» .Ma cos’è la giustizia?
Essa è ilcriterio«deduttivo»cui devono rifarsi «tutti i casi di ricerca morale» e
pertanto - vista l’interdipendenza tra etica e ragione - è guida inappellabile
«nell’esame della verità politica». La giustizia è l’architrave della società
umana; essa non ha tempo perché la sua natura è «inalterabile». In quanto
«somma dei doveri morali e politici», è «1 ’ appellativo generale di ogni dovere
morale».Tutti devono sottomettersi ai suoi dettami che sono, nella loro
essenza, assoluti: sono infatti di evidenza cartesiana, dunque riconoscibili da
chiunque perché «uniformi nella loro natura [e] ugualmente applicabili
all intera razza umana». Questi dettami stabiliscono i doveri del singolo verso
la collettività e i doveri della collettività verso il singolo. Come non esiste una
giustizia sociale o una giustizia individuale, ma la giustizia tout-court, così, per
perfetta analogia, non c’è una ragione personale o una ragione comunitaria: c’è
la ragione in quanto tale. Il fatto che molte volte gli uomini errino nell’
applicare ciò che la giustizia richiede è dovuto al loro imperfetto grado di
conoscenza, alla circostanza che il loro intelletto non è sempre capace di
riconoscere la verità.
La coincidenza illuministica fra ragione, giustizia e felicità è in questo
modo portata al suo punto estremo. L’universalità della
ragione non può che condurre alla universalità della virtù, la quale
implica il dovere di seguire i dettami morali, che a loro volta
conducono alla felicità individuale e collettiva. Per virtù Godwin
intende una chiara e generale consapevolezza intellettuale, che
consiste nel «promuovere la felicità degli esseri intelligenti». Essa va
molto al di là del dettato cristiano perché non si esaurisce soltanto
nella disposizione morale volta a ottenere il bene, ma anche nella
giusta scelta razionale intesa a perseguire ciò che merita essere
perseguito: insomma, non esiste virtù senza intelligenza.
L’eudemonismo godwiniano è l’approdo necessario del perseguimento
della verità, che è insieme ragione e moralità, per cui gli
stimoli che spingono il soggetto a modellare la sua condotta, se
rettamente intesi, sono fondati sulle basi oggettive della convivenza.
La ricerca del piacere o, per meglio dire, della felicità, non è però,
come potrebbe sembrare, una forma di stravolgimento della virtù
perché qui non si intende perseguire l’individualismo egoistico o il
cinismo personale. L’attuazione del piacere, infatti, deve essere
collettiva, nel senso che «è nell’interesse di ciascuno che tutti formino
i propri schemi personali con uno spirito di rispetto e di
accomodamento verso il piacere reciproco». E così contemplata la
fondamentale considerazione che vuole il dovere di tutti come
coincidente con il dovere di ciascuno, «in quanto solo gli sforzi
comuni possono essere efficaci»1.
In questo modo Godwin introduce il rapporto anarchico tra libertà e
uguaglianza, partendo dalla irrinunciabile premessa che «la prosperità
di tutti è l’interesse di tutti»; pertanto «il nostro vicino [deve essere]
indipendente [e] libero» perché ciò costituisce «il nostro stesso
vantaggio [che] vale reciprocamente per lui». «Lo scopo della sana
politica e della morale è di avvicinare gli uomini fra loro, non di
separarli; di unire i loro interessi, non di metterli in opposizione». E
sono, anche quest’ultime considerazioni, di forte e inequivocabile
orientamento illuministico, nascono dalla fiducia in una
universalizzazione del progresso per tutto il globo terracqueo perché «i
punti in cui gli esseri umani si rassomigliano meritano molta più
considerazione di quelli in cui differiscono».
Il rapporto anarchico dell’inscindibile nesso tra felicità pubblica e
privata deriva, l’abbiamo visto, dalla relazione tra giustizia e
uguaglianza: gli uomini vanno considerati uguali in quanto sono tutti
eticamente equivalenti di fronte alla giustizia, che non è individuale o
collettiva ma giustizia tout-court, come, per l’appunto, non c’è una
ragione singola o multipla ma la ragione in quanto tale. Per questi stessi
motivi, per avere cioè delineato l’idea di giustizia come ordine immanente
e razionale del bene pubblico quale esito addizionale di quelli privati,
Godwin nega la teoria liberale e democratica dei diritti perché a suo
giudizio errata sotto il profilo epistemologico e ingiusta sotto quello
assiologico.
Se un’azione è giusta, essa non abbisogna di alcuna sanzione di
diritto. Partendo dal concetto che «il dovere è quel tipo di azione di un
individuo che costituisce la miglior applicazione del bene gene- rale», si
deve ammettere che «nulla può essere più incontrovertibile del fatto che
non ho il diritto di omettere ciò che il dovere mi prescrive, Da ciò
consegue inevitabilmente che gli uomini non hanno diritti», se per diritti
si intende il potere d’arbitrio, cioè la piena e completa facoltà «di fare o
di tralasciare una cosa, senza che la persona interessata diventi
responsabile di biasimo o di censura da parte altrui» . A rigore, infatti,
«le nostre azioni ricadono nel campo della morale» e nessuno può
«legittimamente oltrepassare [questi ] confini». «Ne deriva che noi non
abbiamo il diritto di scegliere» a nostro arbitrio, ma soltanto quello di
attenerci alle «superiori esigenze della giustizia» di fronte alla quale
«tutti i diritti sono rimossi o vanificati». Si esprime così, con questo
divieto di natura etica, il concetto di uguaglianza, nel senso che nessuno
ha il diritto, diseguale, di fare ciò che gli piace perché tutti devono
sottomettersi ai dettami del giusto. Giustizia e uguaglianza originano da
questa concezione negati vistica del diritto, dall’ idea, appunto, che è
preclusa a chiunque la prerogativa di fare ciò che gli aggrada, visto che
tutti devono attenersi all’immutabile e universale ragione, la quale è
unica e dunque comune a tutti gli uomini.
La considerazione epistemologica che spinge Godwin a questa
radicale affermazione discende dalla constatazione dell'inscindibilità dei
nessi che legano ogni individuo al tutto: il singolo non è mai sciolto dalla
totalità che lo circonda ed è una sua illusione credere di poter prescindere
dalle insopprimibili esigenze di questo ordine vincolante. Ciò,
naturalmente, non significa affatto che questa totalità possa essere
interpretata come valenza delle ragioni della collettività perché anche
quest’ultima, per gli stessi motivi, deve sottomettersi ai dettami
dell’immutabile ragione, vale a dire in questo caso della giustizia. Infatti
è appena necessario aggiungere che se gli individui sono privi di diritti,
«non ne ha neppure la società, che possiede solo ciò che gli individui
hanno messo in comune»,
Proprio perché non esiste una ragione pubblica o una ragione privata,
ma la ragione in quanto tale, «non sarà mai troppo profondamente
impresso il concetto che società e comunità umane non possono avere il
potere di stabilire assurdità e ingiustizia; che la voce del popolo non è,
come è stata a volte ridicolmente definita, ia voce della verità e di Dio'
e che il consenso universale non può trasformare il torto in ragione».
Siamo così passati, attraverso l’osservanza della giustizia che
impone egualitariamente doveri e non diritti, alla prepotente libertà
individualistica del giudizio privato, proprio grazie alla condizione
egualitaria posta dalla relazione tra ragione e verità: lo statuto oggettivo
della ragione attiva l’azione soggettiva dell’individuo; l’oggettività
egualitaria della giustizia mette in moto la libertà individuale del
soggetto. E ciò perché «l’uomo è un essere che fonda la propria
eccellenza sull’individualità, e non può essere grande né saggio se non
in proporzione alla propria indipendenza». Ogni individuo ha il diritto
di accedere alla verità e di esprimere il suo insindacabile giudizio
personale che diventa a questo punto la sola guida morale e politica
della propria condotta pubblica.
Nessun uomo deve usurpare il mio ambito, né io devo invadere il suo. Egli
può consigliarmi, moderatamente e senza ostinazione, ma non deve pensare di
darmi ordini; può censurarmi liberamente e senza riserve, ma deve ricordare
che io agirò secondo la mia decisione, non secondo la sua. Egli può giudicare
con coraggio civile, ma non deve essere imperioso: mai si deve ricorrere alla
forza, se non nei casi più eccezionali e impellenti. Devo esercitare le mie
capacità per il vantaggio degli altri; ma tale azione deve essere il frutto di
un’effettiva convinzione: nessuno deve costringermi con la forza .
Nessuno deve imporre dunque il proprio punto di vista perché non
esiste alcun individuo che abbia il diritto arbitrario di coartare la
ragione, il cui esercizio è uguale per tutti. Infatti come non esistono una
giustizia o una ragione collettive o individuali, così non esiste una
verità pubblica o privata, ma la verità tout-court, «l’immortale e
onnipresente verità», la quale richiede di essere rispettata ovunque.
«Se la verità è una, deve esistere un codice di verità in relazione ai
nostri reciproci doveri», che impongono di essere sempre e comunque
sinceri perché soltanto la sincerità conduce gli uomini ad instaurare
delle relazioni virtuose. Il concetto anarchico è qui rappresentato
dalla libertà insindacabile del soggetto che si attiene al vero, qualunque siano le
condizioni sociali e politiche esistenti. E poiché, come abbiamo visto, etica,
ragione e giustizia sono facce diverse di uno stesso prisma, ne deriva che è
proprio questo universale intreccio assiologico a rendere sacro e invalicabile il
territorio dei diritti individuali i quali, data questa necessaria interdipendenza,
si riducono appunto ad uno solo: «il diritto del giudizio personale» . L’esercizio
dell’assoluta indipendenza intellettuale vale sempre e comunque e
costituisce la vera garanzia dell’ individuo rispetto all’ invadenza sia del
governo sia della comunità, questi continui usurpatori «del giudizio privato».
La verità non scaturisce dai rapporti di forza e non è quindi necessariamente
storica. Tra un’intera collettività che eira, perché non si attiene all’«immutabile
voce della ragione e della giustizia», e un solo individuo che invece la
persegue, è nel giusto quest’ultimo e ha il diritto di rivendicarlo contro tutto e
tutti. Infatti «la verità non può essere resa più valida dal numero dei suoi
sostenitori». La dissoluzione di ogni imposizione esterna diventa così
l’approdo logico dell’egualitaria istanza etica della giustizia.
Nell’ambito del discorso sulla giustizia rientra l’analisi della proprietà
privata, che non è criticata di perse, ma quale momento di una catena di errori
rispetto alla logica universale dellagiustizia. Non esiste per Godwin un
problema specifico della proprietà perché questa è soltanto una delle tante forme
di estensione materiale del giudizio individuale: ontologicamente non è causa di
nulla, anche se è «la chiave di volta che completa la struttura della giustizia
politica» . Godwin si attiene in sostanza alla concezione lockiana perché
afferma che «il principio su cui si fonda la dottrina della proprietà è il sacro e
inamovibile diritto di giudizio privato». In tal senso la proprietà è soltanto un
mezzo e tutto il problema non consiste nella sua esistenza ma nel suo uso.
L’idea di proprietà, essendo «una derivazione personale del giudizio»,
comporta la necessità di concedere «ad ogni uomo, in misura notevole,
l’esercizio della propria discrezione», altrimenti non vi potrà essere
«indipendenza, progresso, virtù, felicità».
E quindi contro il regime proprietario, ma nel contempo non
propugnalasuaabolizione. La consapevolezza dell’interdipendenza fra
perseguimento del bene individuale e perseguimento del bene collettivo non lo
porta ad alcuna concezione socialista della società, a nessuna soluzione
collettivistica dell’economia, anche se a suo giudizio è desiderabile «un’equa
distribuzione di beni terreni». La
critica godwiniana della proprietà vuole testimoniare piuttosto l’approccio
universalistico alla giustizia politica, nel senso che ad unire gli
uomini deve essere la consapevolezza dell’universale matrice morale,
la quale vuole, «secondo i princìpi della giustizia equa e imparziale»,
che i beni del mondo siano «un patrimonio comune», su cui ogni uomo
possa «vantare lo stesso titolo di chiunque altro a ricavare ciò di cui ha
bisogno».
Come abbiamo visto, per Godwin — che segue la critica lockiana
del l’innatismo - tutte le idee nascono dai sensi e pertanto l’uomo non è
che il frutto dell’ambiente e dell’educazione. L’antropologia
godwiniana è ottimistica perché presuppone la perfettibilità del genere
umano dovuta al necessitante rapporto tra civiltà e libertà, tra verità e
ragione. «Esiste nel mondo un livello di progresso reale e visibile. Ciò
è particolarmente manifesto nella storia della parte civilizzata
dell’umanità durante gli ultimi tre secoli. E, dato che i miglioramenti
sono continuati incessantemente, non esiste alcuna possibilità che essi
non proseguano». L’uomo diviene progressivamente libero in quanto è
suscettibile di una acquisizione culturale infinita dovuta a questo
incessante rapporto tra civiltà e libertà, tra verità e ragione. La crescita
delle une comporta la crescita delle altre e tutte conducono ad un
progresso continuo della specie. Il pensatore inglese intende dimostrare
che l’unica possibilità concreta per il punto di vista radicale della
trasformazione politica della società risiede nell’educazione, «dal
momento che l’opinione pubblica può essere istruita solo in maniera
graduale»; pertanto «ogni cosa può essere affidata al tranquillo e sano
progresso della ragione». «Il compito dell’amico illuminato della
giustizia politica consiste per lo più in questo solo sforzo, vigile e
continuo, di assistere il progresso». Se infatti l’ambiente è
determinante per la formazione morale e civile degli individui, tutto il
problema politico si risolve alla fine nel ri spetto del corretto metodo
che deve presiedere al mutamento del contesto sociale.
Date queste premesse, è logico che la soluzione proposta da Godwin
sia improntata all’educazionismo più radicale e conseguente. Il suo
educazionismo estremo intende dimostrare che il cambiamento
materiale è sempre l’effetto di quello culturale. Soltanto la riforma
continua dei costumi, la discussione pacata e razionale, la persuasione
derivante dall’evidenza incontrovertibile delle cose può sopperire al
compito immane di cambiare la società, dal momento che non sono i
rapporti di forza a determinare veramente la forma politica e sociale della comunità, ma i giudizi che gli uomini si sono fatti
di essa. A tal fine l’educazione è pressoché onnipotente e in tutti
i casi non c’è altra strada per cambiare la mentalità e le abitudini umane.
In conclusione, soltanto se l’azione degli individui è motivata da
un’opinione consapevolmente perseguita, si può parlare di essa come di
un atto volontario. Si definisce dunque libera una azione umana laddove
questa è scaturita da una altrettanto libera opinione.
È sbarrata così la via alle rivoluzioni, giudicate «il prodotto delle
passioni, non della sobriae tranquilla ragione», in quanto «uni la è più
deprecabile della violenza o di una fretta precipitosa». Gli interessi dell’
umanità esigono «un cambiamento graduale», anche se ininterrotto’’",
perché «o una nazione è matura per l'affermazione e il mantenimento
della sua libertà, o non lo è».
* Nico Berti-Un'Idea Esagerata di Libertà,capitolo "William Godwin, Giustizia politica e felicità" pg 31-38
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