Di Massimo Leone *
Alla fine degli anni Settanta, soprattutto grazie all’opera di Claude Lévi-Strauss e
Margaret Mead, l’epistemologia e la metodologia della linguistica strutturale, poi
della semiologia, entrano a far parte del bagaglio di strumenti concettuali e analitici
dell’antropologia culturale. In particolare, è proprio attraverso una sensibilitÃ
semiologica che l’antropologia degli anni Settanta affronta il problema del significato
della cosiddetta “cultura materiale” e, nella fattispecie, del vestire.
In questa
prospettiva si rileggono alcuni saggi del passato, che già manifestavano un
pionieristico approccio semiologico al vestire e ai suoi significati. È il caso del saggio
di Petr Bogatyrev La funzione del costume folklorico nella Slovacchia morava,
originalmente pubblicato in slovacco nel 1937 e ripubblicato in inglese da Mouton nel
1971 nella collana “Approcci alla semiotica” [“Approaches to semiotics”]. Vi si
legge: «Al fine di cogliere le funzioni sociali dei costumi dobbiamo imparare a
leggerli come segni nello stesso modo in cui impariamo a leggere e comprendere le
lingue» [«in order to grasp the social functions of costumes we must learn to read
them as signs in the same way we learn to read and understand languages»]
(BOGATYREV 1971: 83; trad. mia). È forse una delle prime manifestazioni esplicite
di un’istanza che, con il diffondersi della semiologia, si farà sempre più insistente:
apprendere a decodificare il significato del vestire alla stregua di come si apprende a
decodificare il significato del linguaggio verbale.
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Gli antropologi che adottano una sensibilità e uno strumentario semiologici si
accorgono subito che il vestire assume il proprio significato in maniera differente a
seconda delle varie dimensioni dell’esistenza umana in cui viene utilizzato come
segno: nell’ambito dell’esperienza estetica in termini di espressione della propria
identità (anche l’identità fluttuante dell’umore) e differenziazione dall’identità altrui
(o da un’identità propria rispetto alla quale si desidera distinguersi); nell’ambito della
definizione del ruolo sociale; come affermazione non verbale del valore
ell’individuo in seno a una comunità ; come indicatore di uno status economico;
come segno di appartenenza politica; come indicatore di una condizione magicoreligiosa;
come strumento rituale; come dispositivo per il rafforzamento di credenze,
costumi e valori; come forma di svago; come segno legato alla sfera della sessualità ,
etc. (ROACH e EICHER 1979).
Pare però evidente tanto agli antropologi con una sensibilità semio-linguistica quanto
ai semiologi con una curiosità antropologica che questa differenziazione di significati
(o come direbbe la semiotica contemporanea, di pratiche significanti) deve unirsi a
uno sforzo, tipico del sapere antropologico, di individuare alcune leggi comuni che
sottendano la significazione del vestire nel suo complesso, indipendentemente dai
periodi storici, dai contesti socio-culturali e dalle dimensioni del vestire. In altre
parole, sembra necessario scoprire la struttura profonda del vestire (o dello svestirsi,
suo inscindibile complementare) come linguaggio, come matrice di sensi possibili.
* Massimo Leone-Pudibondi e spudorati
Riflessioni semiotiche sul linguaggio del corpo (s)vestito, pg 1-3
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