Di Marino Freschi
E’ escluso che i giovani no global lo celebreranno, eppure se si dovessero rintracciare i precursori del nuovo movimento, tanto corteggiato dai vari leader della sinistra, da Cofferati a Bertinotti, affiorirebbero nomi impresentabili e tra questi vengono in mente subito Nietzsche, Hesse e Hamsun. Stranamente quest’anno(nb 2002) ricorrono due anniversari: 40 anni della morte di Hesse, ricordati assai in sordina dai vari Goethe-Institute (rammento, invece, i due grandi convegni del 1992 promossi dai “Goethe” a Roma e a Milano, ma allora la politica culturale tedesca era in altre mani). Ma se qualche mostra e concerto per Hesse ci sarà, su Hamsun, di cui ricorre il 50° anniversario della scomparsa, cala ancora un ostinato, anacronistico silenzio, interrotto solo dal consueto coraggio culturale della casa editrice Adelphi, che ha appena ristampato Pan (pagine 190, € 13,43), il capolavoro dello scrittore norvegese, nato nel 1859 e morto il 19 febbrario 1952 nel completo isolamento a Nørholm, dopo tre anni d’internamento, dal ’45 al ’48, in un manicomio per la sua adesione al nazismo e il suo appoggio al governo collaborazionista di Quisling, e dopo un continuato ostracismo, che lo scrittore seppe squarciare con uno dei più amari e tremendi libri Per i sentieri dove cresce l’erba.
Tutti sanno del suo attaccamento caparbio alla terra, a quel suo piccolo universo tra il fjord e il marken, la terra arabile, ma questo radicamento proviene, paradossalmente, da una conoscenza per quel tempo approfondita e vasta del mondo. Hamsun, ovvero Knut Pedersen come ancora si chiamava, era di umili origini, aveva fatto tutti i mestieri e per anni, in due riprese, era emigrato in America, insieme a tanti altri suoi ‘paesani’ alla ricerca di una improbabile fortuna, che invece incontrò in patria per la sua ostinata volontà di scrivere. Da giovane conobbe la vita randagia e se ne tornò in Norvegia, tra i boschi, con un risoluto piglio di rivolta e di anarchico rifiuto di quella modernità, sostanziata dallo sfruttamento e dalla bruttezza. Si ribellava, come Nietzsche e come Jack London (cui assomiglia anche per analoghi percorsi esistenziali) al mondo moderno, alla società capitalista, ma anche alla democrazia che omologava tutti, al socialismo massificante. E condannava e denunciava la minaccia che pesava sulla natura insidiata dai selvaggi processi dell’industrializzazione, allora (come in gran parte ancora oggi) incontrollati e distruttivi. Imbevuto di filosofia nietzschiana, affascinato dalla scrittura demonica di Dostoieewskij, nordicamente pessimista e insieme realista, senza illusioni sulle ideologie progressiste, Hamsun trova rapidamente, con Fame nel 1890, la sua originalità narrativa, incontra la sua lingua, il suo universo, cui rimase fedele, cocciutamente, nella raffigurazione epica dei suoi racconti, pervasi da brezze suggestive di animosità (più che di intellettualità) anarchica, antiborghese, reazionaria e insieme romantica, poeticissima.
Lavorava racconto dopo racconto, dramma dopo dramma, alla grande figura del vagabondo, libero e maledetto, senza meta, senza dimora, senza amore eppure col cuore gonfio di un caldo, estatico sentimento della natura. I successi si susseguono gli anni Novanta sono prodigiosamente creativi; Pan è del 1892-94; mette in cantiere due trilogie, lavora con un impeto straordinario anche a drammi, seguendo la grande lezione di Ibsen. In breve viene riconosciuto come il principale scrittore del Nord; Thomas Mann ne parla come del “più grande vivente”
e nel 1920 gli viene conferito il Premio Nobel. Ma l’orizzonte comincerà ad oscurarsi rapidamente con la sua inclinazione per il movimento hitleriano, che gli alienò numerose simpatie nel campo intellettuale.
e nel 1920 gli viene conferito il Premio Nobel. Ma l’orizzonte comincerà ad oscurarsi rapidamente con la sua inclinazione per il movimento hitleriano, che gli alienò numerose simpatie nel campo intellettuale.
Ma lui procede tenace nella sua ricerca con le sue scomode convinzioni. In Hamsun affiora un cosmo complesso, fosco persino tetro, disperato, ma anche robusto, tenace e irrefutabile nella sua coerenza e nella sua intima, seducente durezza. E’, il suo, un universo privo di orpelli, di facili lusinghe, di scorciatoie false, di accomodamenti e compromessi. Più che nazista, la sua fede è radicata in una sorta di mistica unione con la natura, vissuta paganamente, misteriosamente e insieme con l’ansia di chi sa, di chi prevede la prossima fine di un’epoca. Il suo credo è quello neopagano, destinato a frantumarsi non perché contraddetto o superato, ma perché è stato semplicemente ‘dimenticato’, derubricato; i vincitori non si sono nemmeno presa la briga di contrastare quel pensiero, di confutare quelle bizzarre tesi. Con lui avviene ciò che era successo con gli ultimi fedeli della religione pagana: gli dei sono morti, Pan è morto e ciò è ancora più atroce e definitivo di una contestazione, di una polemica. La divina, immensa natura madre del nord viene cancellata con le risate e le chiacchiere intorno al televisore, il nuovo idolo, il grande comunicatore. Non sembra possibile che sia esistita – ed era ancora ieri – un’epoca in cui l’uomo sapeva tacere, sapeva ascoltare la crescita dei fili d’erba.
Oggi in Italia Hamsun viene ricordato da un solitario foglio indipendente, “Margini” delle Edizioni Ar. Anche all’interno della comunità letteraria la sua lezione sembra esaurita, affondata da tutti i minimalisti globali. Ma forse non è proprio così: Peter Handke continua, come prova il suo recentissimo romanzo, la sua rivisitazione in un universo sempre più desolato e sempre meno cittadino e globale. E torna in mente uno strano giudizio di Benjamin sui personaggi di Hamsun. Nel 1929 il critico berlinese affermava che lo scrittore norvegese era “un maestro nell’arte di creare il personaggio dell’eroe sventato, buono a nulla, perdigiorno e malandato”. Ma questa strana resurrezione dell’eroe nella letteratura così antieroica delNovecento costituisce un fiume carsico che non si è mai interrotto che esplode in superficie improvvisamente con Ernst Jünger, con André Malraux o con Manes Sperber, avventurieri e scrittori di destra e di sinistra, in realtà sovranamente anarchici. Le nostre patrie lettere hanno D’Annunzio e non è poco, forse persino troppo per una letteratura che vive sempre più marginale e marginalizzata ai confini dell’impero, anche se talvolta – e lo dimostra proprio Hamsun all’estremità del mondo abitato – è proprio nelle lande più remote, in quelle meno protagoniste del grande show mediatico, che si avvertono gli scricchiolii e le nuove tendenze: penso al recente Il terzo ufficiale ( pagine 316,€15), il romanzo ‘eroico’ di Giuseppe Conte, appena uscito da Longanesi.
Neopaganesimo, contatto con la natura, eroe, sono i temi dell’epica di Hamsun e questi racconti tramano l’eterna vicenda degli archetipi. Si può leggere la narrativa di Hamsun come una grandiosa rappresentazione sacra e insieme nudamente priva di dei, intesi quali comode speranze e arrendevoli comandamenti. Nella sua pagina affiorano, silenziosi, ostinatamente muti, gli antichi dei del Nord, i numi norreni delle saghe arcaiche, quando l’uomo vichingo si lanciava, incosciente del pericolo, su tutti i mari del mondo e la sua civiltà brillava da costa a costa, dalla Sicilia alla Normandia, dal Volga alle sponde ignote del Nuovo Mondo. E’ quel DNA che viene trasmesso dalle trilogie di Hamsun, come quella potente, intramontabile dei “Vagabondi”, intagliati nel legno duro degli outsider anarchici e dei ribelli.
L’autore intuisce nella natura la nostalgia segreta dell’anima moderna. L’uomo contemporaneo, gettato nelle metropoli di asfalto e cemento, nasconde un sogno struggente: il bosco e il mare. In tanti libri, da Fame a Pan, da La nuova terra del 1893 a Victoria del 1898 a Hamsun rincorre questo tema come il leitmotiv, che pervade la sua opera, continuamente diversa e costantemente fedele fino a una straordinaria monotonia, monomania, che ossessivamente cattura il lettore, riplasmandone l’immaginazione e la sua capacità di ricezione sia letteraria che esistenziale.
Ma il suo libro più stupefacente è Per i sentieri dove cresce l’erba del 1948, la sua ultima fatica letteraria, pubblicata a novant’anni. E’ uno scritto autobiografico, un diario stupendo e atroce, dettato dalla disperazione e da un’umiliazione tremenda.
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Tratto da Il Giornale del 18 febbraio 2002
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