Di quanto è avvenuto nei lager nazisti è disponibile un’ampia documentazione nonché moltissime testimonianze Al contrario, su quanto avvenne nella Jugoslavia di Tito e nei campi di concentramento comunisti la documentazione, le testimonianze e soprattutto la possibilità di accedere agli archivi di stato ed ad altre fonti utili alla comprensione dell’accaduto, sono alquanto carenti e rendono la dimensione della carneficina, attuata dai titini, quasi impossibile da ricostruire.
Nessuna telecamera ha mai filmato i campi jugoslavi o le loro vittime, come invece è accaduto in Germania. La mancanza di documentazione filmata, oltre ad una precisa volontà , ha fatto sì che per la nostra cultura, molto legata alle immagini, tutto ciò fosse come mai esistito.
Ciò che avvenne è stato a lungo dimenticato dalla storiografia. Un’immane tragedia, volutamente sepolta, che pesa come un macigno sulle coscienze di quanti sapevano e non intervennero e di quanti in nome della libertà e della “fratellanza” massacrarono senza pietà .
Nei campi di concentramento comunisti jugoslavi vennero deportate e persero la vita migliaia di persone, militari e civili, fascisti, antifascisti, membri della resistenza, numerosi reduci dai lager nazisti e persino molti comunisti.
Dal giugno 1948, infatti, dopo l’espulsione della Jugoslavia dal cosmo sovietico in cui gravitavano i paesi legati al “Patto di Varsavia”, anche i cominformisti, ovvero quei comunisti fedeli all’ortodossia leninista stalinista legata al Cominform, che aveva condannato Tito, finirono nei campi di concentramento. Fu un’immensa tragedia, all’interno della quale si svolse anche una dura lotta fratricida, fra comunisti.
Fra i campi di concentramento jugoslavi ricordiamo Borovnica, Aidussina, Skofia Loka, Maribor,Goli Otok (Isola Calva) e Sveti Grgur (Isola di San Gregorio), In questi luoghi molti morirono di torture o si suicidarono, altri vennero semplicemente lasciati morire di fame o di sfinimento.
La bestialità dei campi di concentramento comunisti richiama alla memoria quella dei lager nazisti. Ma, come già rilevava Vittorio Strada Il problema, (…), non è soltanto quello di appurare quale dei totalitarismi, quello “rosso” e quello “nero” (o “bruno”) abbia commesso più crimini, e neppure quello di mettere assurdamente questi inediti crimini politici e ideologici di sterminio in parallelo coi pur orrendi crimini di guerra “tradizionali”, bensì quello di confrontare i due tipi di sterminio, quello “rosso” e quello “bruno”, individuandone le indubbie peculiarità e, insieme, ciò che li accomuna.
E’ questo il tipo di problema che quasi mezzo secolo fa, si pose Julij Margolin, un ebreo sionista che tornato nel 1939 per un breve viaggio da Israele nella sua città natale in Polonia allora occupata dalle truppe sovietiche, fu arrestato come “elemento socialmente pericoloso” e condannato a sei anni di Lager nella “patria del socialismo”. Filosofo e scrittore, autore di una delle prime testimonianze sul Gulag, Margolin nel 1950 osò formulare una domanda che ancor oggi suona “reazionaria”, se non sacrilega, agli eredi di Lenin e Stalin: “E’ possibile confrontare i Lager hitleriani con quelli sovietici?”.
La risposta che Margolin diede nel suo saggio fu positiva: essi si possono comparare perché fra di loro ci sono molte affinità . C’è somiglianza nei fini.
Entrambi hanno lo stesso carattere aggressivo, rapace e disumano. Entrambi si servono ugualmente del sistema dei Lager per schiacciare la resistenza politica dei loro avversari. (…) L’hitlerismo ha lanciato un’aperta sfida alla famiglia dei popoli europei, a un retaggio secolare, a una tradizione di libertà e umanismo. Il suo regime banditesco esso non l’ha nascosto e non ha ingannato nessuno, costituendo un pericolo evidente e indubbio. Diverso è il caso del sistema comunista sovietico, che è stato un pericolo invisibile e furtivo, ignoto alla società europea, anche se i microbi di questa terribile malattia sono già penetrati all’interno della sua cultura. Salvarsi dall’ hitlerismo, sia pure a prezzo di una lunga guerra, è stato più facile che salvarsi dall’altro “sistema di Lager” che si cela sotto la maschera di una fraseologia democratica, di parole d’ordine socialiste e di un grande vessillo su cui è scritto “pace” e il cui spirito è tanto più pericoloso quanto più è sincero.
Le torture
Dei campi di concentramento jugoslavi scrive anche Riccardo Pelliccetti (45), il quale, avvalendosi del rapporto del 5 ottobre 1945 dei Servizi Speciali del Ministero della Marina46, racconta il macabro repertorio di torture che venivano praticate nei gulag jugoslavi.
C’era lo “stroj”, un tunnel umano attraverso il quale, fra insulti e percosse bestiali, doveva passare chi giungeva nel lager; il “bojkot”, o isolamento totale, spesso accompagnato da una razione straordinaria di “stroj”, cui periodicamente erano sottoposti gli avversari del regime; l’autorepressione, che consisteva nell’affidare il compito di torturatori agli stessi detenuti, ordinando di tanto in tanto lo scambio di ruoli. (47)
C’era la tortura al palo:
La tortura al palo consisteva nell’essere legato con filo di ferro ad ambedue le braccia dietro la schiena e restare sospeso a un’altezza di 50 cm da terra, per delle ore. Un genovese per fame rubò del cibo a un compagno, fu legato al palo per più di tre ore. Levato da quella posizione non fu più in grado di muovere le braccia giacché, oltre ad avere le braccia nere come il carbone, il filo di ferro gli era entrato nelle carni fino all’osso causandogli un’infezione. Senza cura per tre giorni le carni cominciarono a dar segni di evidente materia e quindi putrefazione. Fu portato a una specie di ospedale e precisamente a Skofja Loka. Ma ormai non c’era più niente da fare, nel braccio destro già pullulavano i vermi…Al campo questo ospedale veniva denominato il Cimitero (…)
Tra le testimonianze dirette va invece ricordata quella di Guido Tassan, sottotenente della divisione alpina “Julia”, combattente in Grecia e Russia. Egli, dopo essere stato arrestato dalla polizia segreta jugoslava OZNA (Odelenje bastita naroda), venne tenuto prigioniero per due anni e due mesi. Il suo racconto delle sevizie e delle sofferenze subite non si discosta da quello, tragico, di altri ex prigionieri, ma la ricostruzione che egli fa degli avvenimenti del tempo ha una grande importanza.
I militari arrivavano negli stanzoni la notte e leggevano i nomi di chi doveva partire. Il 6 gennaio risuonò anche il mio nominativo. Venni messo in fila nei corridoi con gli altri. C’era anche Licurgo Olivi, esponente del Cln di Gorizia. Poi mi fecero rientrare nella camerata. Gli altri furono caricati su dei camion con le mani legate dietro la schiena. Alle prigioni dell’OZNA fecero ritorno solo i loro vestiti.
Un particolare ricordo del sopravvissuto, viene fuori con amara ironia a testimonianza del cinismo dei comunisti.
E pensare che quando Palmiro Togliatti nel ’46 venne a visitare il carcere dell’Ozna a Lubiana ci fecero andare tutti in cantina. Così l’esponente comunista poté dichiarare che in Jugoslavia non c’erano prigionieri italiani.
Pochi giorni dopo, in un altro articolo, la dichiarazione molto significativa del 22 febbraio 1946 dell’allora arcivescovo di Trieste, Monsignor Antonio Santin, alla Commissione Confine:
Il governo jugoslavo asserisce che furono deportati soltanto fascisti e uomini che combattevano a fianco dei tedeschi. A parte il fatto che è ben noto il valore che la parola “fascista” ha assunto nell’Oriente balcanico, riportiamo a piena smentita di tale asserzione il documento 1 con un elenco di patrioti italiani deportati, i documenti 2, 3, 4 attestanti la deportazione di soldati della “Legnano” alle dipendenze dell’ottava armata britannica e il documento 5 attestante l’arresto delle Guardie di finanza che si erano distinte nella lotta contro i tedeschi e che furono fermate con un raggiro.
Ancora più importanti, forse, le parole contenute nella relazione del maggiore T.L.C. Taylor dell’esercito britannico. Il documento, classificato “segreto”, è datato 3 agosto 1945 ed intitolato “Rapporto generale sugli arresti e sulle esecuzioni perpetrate dagli jugoslavi nel maggio – giugno 1945″. Così si apprende che a “Gorizia vennero arrestati circa quattromila italiani (…), in provincia di Trieste tra il primo maggio e il 12 giugno del 1945 furono arrestate 17 mila persone, delle quali ottomila furono successivamente rilasciate, tremila furono uccise e seimila sono ancora internate (tremila nel campo di Borovnica)”.
Anche la testimonianza riportata da Bruno Borlandi di Giuseppe Moreno, un commercialista che, nel 1945, finì in un campo di concentramento di Tito è estremamente significativa. Sempre a proposito del modo indiscriminato con il quale gli italiani venivano arrestati e deportati Moreno ricorda:
I partigiani di Tito mettevano nel lager chiunque parlasse italiano; anche ex partigiani “garibaldini” che venivano dall’Italia per unirsi agli slavi; o ex prigionieri dei tedeschi provenienti dai Balcani” (…) Eravamo un reparto di militari italiani arruolati nel ’43 all’età di 18 anni, siamo stati mandati a Pola a costruire fortificazioni. Il 2 maggio fummo catturati dai partigiani slavi a Buie, mentre tentavamo con altri reparti di rientrare a Trieste. Ci portarono, facendoci marciare, a Capodistria, da qui sempre a piedi fummo portati a Borovnica, nella piana di Lubiana. Eravamo obbligati a durissimi lavori, venivamo percossi con lunghe fruste da cavallo e nerbi di bue. (…) I morti venivano gettati in una fossa comune che serviva da latrina collettiva. Eravamo ridotti come scheletri; divorati dalla dissenteria e dal tifo. Ho visto scene spaventose provocate dalla fame: una volta fu portato un cavallo morto che doveva servire per la minestra. Alcuni prigionieri si avventarono a raccogliere il fango bagnato del sangue della bestia, altri andarono di notte a disseppellire le budella crude e gli zoccoli per mangiare. Ne morirono. Alcuni che avevano fatto lavori presso i contadini del luogo ricevettero polenta, ne mangiarono e morirono con gli intestini perforati. Ogni giorno c’erano morti.
Pochissimi sono tornati e lo Stato italiano non ha mai riconosciuto ai pochi superstiti alcuna pensione di invalidità .
Non ci fu riconoscimento nemmeno per il servizio militare fatto – due anni – e al rientro dovemmo ripresentarci al distretto per fare il servizio di leva.
Queste tragiche vicende trovano riscontro anche in una relazione riservatissima, fatta dall’ufficio informazioni per i prigionieri di guerra della pontificia commissione di Udine firmata da Clonfeo don Nais, alle superiori gerarchie ecclesiastiche il 25 agosto 1945:
Gli italiani della Venezia Giulia rastrellati e portati in campi di concentramento in Jugoslavia, assommano a circa 30 mila.(…) Nei campi di concentramento sono stati ammucchiati in spazi ristretti, lasciati sotto il sole e le intemperie, senza un ricovero neppure per gli ammalati. Il cibo, somministrato solo a giorni di distanza, era costituito da scarsa brodaglia, solo ultimamente fu dato un pò di pane. I prigionieri sono stati costretti, per non morire di fame, a mangiare erbe e foglie. Spogliati dei loro indumenti, si è dato il caso che in alcuni campi li si è lasciati completamente nudi per alcuni giorni.
Per lievissime infrazioni agli ordini e per capriccio e odio delle guardie dei campi sono stati sottoposti ai supplizi più duri, quali quelli del “palo” del “romboide”. Frequentissime le percosse con nerbi e staffili di ferro.
Obbligati a raggiungere i campi a piedi. Per strada percossi e dileggiati. Chi si fermava veniva ucciso. Gli ammalati venivano finiti a rivoltellate. Lavori duri e pesanti senza alcuna utilità pratica, ma solamente per barbarie. In certi campi si è fatto lavorare dalle 14 alle 16 ore al giorno. Il 50% sono ammalati di dissenteria, tifo petecchiale, infiammazioni ai piedi, T.B.C .
C’era lo “stroj”, un tunnel umano attraverso il quale, fra insulti e percosse bestiali, doveva passare chi giungeva nel lager; il “bojkot”, o isolamento totale, spesso accompagnato da una razione straordinaria di “stroj”, cui periodicamente erano sottoposti gli avversari del regime; l’autorepressione, che consisteva nell’affidare il compito di torturatori agli stessi detenuti, ordinando di tanto in tanto lo scambio di ruoli. (47)
C’era la tortura al palo:
La tortura al palo consisteva nell’essere legato con filo di ferro ad ambedue le braccia dietro la schiena e restare sospeso a un’altezza di 50 cm da terra, per delle ore. Un genovese per fame rubò del cibo a un compagno, fu legato al palo per più di tre ore. Levato da quella posizione non fu più in grado di muovere le braccia giacché, oltre ad avere le braccia nere come il carbone, il filo di ferro gli era entrato nelle carni fino all’osso causandogli un’infezione. Senza cura per tre giorni le carni cominciarono a dar segni di evidente materia e quindi putrefazione. Fu portato a una specie di ospedale e precisamente a Skofja Loka. Ma ormai non c’era più niente da fare, nel braccio destro già pullulavano i vermi…Al campo questo ospedale veniva denominato il Cimitero (…)
Tra le testimonianze dirette va invece ricordata quella di Guido Tassan, sottotenente della divisione alpina “Julia”, combattente in Grecia e Russia. Egli, dopo essere stato arrestato dalla polizia segreta jugoslava OZNA (Odelenje bastita naroda), venne tenuto prigioniero per due anni e due mesi. Il suo racconto delle sevizie e delle sofferenze subite non si discosta da quello, tragico, di altri ex prigionieri, ma la ricostruzione che egli fa degli avvenimenti del tempo ha una grande importanza.
I militari arrivavano negli stanzoni la notte e leggevano i nomi di chi doveva partire. Il 6 gennaio risuonò anche il mio nominativo. Venni messo in fila nei corridoi con gli altri. C’era anche Licurgo Olivi, esponente del Cln di Gorizia. Poi mi fecero rientrare nella camerata. Gli altri furono caricati su dei camion con le mani legate dietro la schiena. Alle prigioni dell’OZNA fecero ritorno solo i loro vestiti.
Un particolare ricordo del sopravvissuto, viene fuori con amara ironia a testimonianza del cinismo dei comunisti.
E pensare che quando Palmiro Togliatti nel ’46 venne a visitare il carcere dell’Ozna a Lubiana ci fecero andare tutti in cantina. Così l’esponente comunista poté dichiarare che in Jugoslavia non c’erano prigionieri italiani.
Pochi giorni dopo, in un altro articolo, la dichiarazione molto significativa del 22 febbraio 1946 dell’allora arcivescovo di Trieste, Monsignor Antonio Santin, alla Commissione Confine:
Il governo jugoslavo asserisce che furono deportati soltanto fascisti e uomini che combattevano a fianco dei tedeschi. A parte il fatto che è ben noto il valore che la parola “fascista” ha assunto nell’Oriente balcanico, riportiamo a piena smentita di tale asserzione il documento 1 con un elenco di patrioti italiani deportati, i documenti 2, 3, 4 attestanti la deportazione di soldati della “Legnano” alle dipendenze dell’ottava armata britannica e il documento 5 attestante l’arresto delle Guardie di finanza che si erano distinte nella lotta contro i tedeschi e che furono fermate con un raggiro.
Ancora più importanti, forse, le parole contenute nella relazione del maggiore T.L.C. Taylor dell’esercito britannico. Il documento, classificato “segreto”, è datato 3 agosto 1945 ed intitolato “Rapporto generale sugli arresti e sulle esecuzioni perpetrate dagli jugoslavi nel maggio – giugno 1945″. Così si apprende che a “Gorizia vennero arrestati circa quattromila italiani (…), in provincia di Trieste tra il primo maggio e il 12 giugno del 1945 furono arrestate 17 mila persone, delle quali ottomila furono successivamente rilasciate, tremila furono uccise e seimila sono ancora internate (tremila nel campo di Borovnica)”.
Anche la testimonianza riportata da Bruno Borlandi di Giuseppe Moreno, un commercialista che, nel 1945, finì in un campo di concentramento di Tito è estremamente significativa. Sempre a proposito del modo indiscriminato con il quale gli italiani venivano arrestati e deportati Moreno ricorda:
I partigiani di Tito mettevano nel lager chiunque parlasse italiano; anche ex partigiani “garibaldini” che venivano dall’Italia per unirsi agli slavi; o ex prigionieri dei tedeschi provenienti dai Balcani” (…) Eravamo un reparto di militari italiani arruolati nel ’43 all’età di 18 anni, siamo stati mandati a Pola a costruire fortificazioni. Il 2 maggio fummo catturati dai partigiani slavi a Buie, mentre tentavamo con altri reparti di rientrare a Trieste. Ci portarono, facendoci marciare, a Capodistria, da qui sempre a piedi fummo portati a Borovnica, nella piana di Lubiana. Eravamo obbligati a durissimi lavori, venivamo percossi con lunghe fruste da cavallo e nerbi di bue. (…) I morti venivano gettati in una fossa comune che serviva da latrina collettiva. Eravamo ridotti come scheletri; divorati dalla dissenteria e dal tifo. Ho visto scene spaventose provocate dalla fame: una volta fu portato un cavallo morto che doveva servire per la minestra. Alcuni prigionieri si avventarono a raccogliere il fango bagnato del sangue della bestia, altri andarono di notte a disseppellire le budella crude e gli zoccoli per mangiare. Ne morirono. Alcuni che avevano fatto lavori presso i contadini del luogo ricevettero polenta, ne mangiarono e morirono con gli intestini perforati. Ogni giorno c’erano morti.
Pochissimi sono tornati e lo Stato italiano non ha mai riconosciuto ai pochi superstiti alcuna pensione di invalidità .
Non ci fu riconoscimento nemmeno per il servizio militare fatto – due anni – e al rientro dovemmo ripresentarci al distretto per fare il servizio di leva.
Queste tragiche vicende trovano riscontro anche in una relazione riservatissima, fatta dall’ufficio informazioni per i prigionieri di guerra della pontificia commissione di Udine firmata da Clonfeo don Nais, alle superiori gerarchie ecclesiastiche il 25 agosto 1945:
Gli italiani della Venezia Giulia rastrellati e portati in campi di concentramento in Jugoslavia, assommano a circa 30 mila.(…) Nei campi di concentramento sono stati ammucchiati in spazi ristretti, lasciati sotto il sole e le intemperie, senza un ricovero neppure per gli ammalati. Il cibo, somministrato solo a giorni di distanza, era costituito da scarsa brodaglia, solo ultimamente fu dato un pò di pane. I prigionieri sono stati costretti, per non morire di fame, a mangiare erbe e foglie. Spogliati dei loro indumenti, si è dato il caso che in alcuni campi li si è lasciati completamente nudi per alcuni giorni.
Per lievissime infrazioni agli ordini e per capriccio e odio delle guardie dei campi sono stati sottoposti ai supplizi più duri, quali quelli del “palo” del “romboide”. Frequentissime le percosse con nerbi e staffili di ferro.
Obbligati a raggiungere i campi a piedi. Per strada percossi e dileggiati. Chi si fermava veniva ucciso. Gli ammalati venivano finiti a rivoltellate. Lavori duri e pesanti senza alcuna utilità pratica, ma solamente per barbarie. In certi campi si è fatto lavorare dalle 14 alle 16 ore al giorno. Il 50% sono ammalati di dissenteria, tifo petecchiale, infiammazioni ai piedi, T.B.C .
Dal sito www.lefoibe.it
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