Al giorno d’oggi, l’American Psychological Association (APA) ha un codice di condotta molto preciso in materia di etica negli esperimenti psicologici.
Gli sperimentatori devono rispettare norme relative a diversi aspetti, dalla riservatezza, alla tutela dei partecipanti, al consenso informato. Tuttavia, le norme non sono sempre state così rigide, ed è proprio prima dell’introduzione di un commissione etica che sono stati condotti alcuni degli esperimenti più famosi nella storia della psicologia…
Gli sperimentatori devono rispettare norme relative a diversi aspetti, dalla riservatezza, alla tutela dei partecipanti, al consenso informato. Tuttavia, le norme non sono sempre state così rigide, ed è proprio prima dell’introduzione di un commissione etica che sono stati condotti alcuni degli esperimenti più famosi nella storia della psicologia…
1. L’esperimento del piccolo Albert
Nel 1920, presso la Johns Hopkins University, John Watson condusse uno studio sul condizionamento classico, un fenomeno che consiste nell’accoppiare uno stimolo incondizionato con uno stimolo neutro finchè non producono la stessa risposta. Questo condizionamento fu inizialmente scoperto da Ivan Pavlov, con i suoi esperimenti sui cani. Pavlov dimostrò che associando diverse volte uno stimolo incondizionato (ad esempio il cibo, in grado di provocare una risposta incondizionata, la salivazione) con uno stimolo neutro (il suono di un campanello), lo stimolo neutro “si condiziona” e diviene capace, da solo, di provocare la risposta (la salivazione avviene in sola presenza del suono del campanello e non necessita più della presenza del cibo).
Watson volle testare il condizionamento classico su un bambino di 9 mesi, Albert.
Albert fu inizialmente fatto interagire con diversi oggetti, tra cui un topo bianco. Il primo incontro con l’animale fu tranquillo e Albert si mostrò piuttosto divertito. Da quel momento in poi, tutte le volte che Albert si trovava ad interagire con l’animale, Watson prese a colpire con un martello un grosso tubo di ferro, provocando una reazione di terrore nel bambino. Dopo diversi accoppiamenti, Albert sviluppò un’intensa paura per il topo bianco, anche quando la sua visione non veniva più accompagnata dal rumore molesto. Inoltre cominciò a temere anche una serie di oggetti pelosi e bianchi che potevano richiamare quello temuto, come una barba da Babbo Natale (fenomeno della generalizzazione). L’esperimento dimostra che la paura può essere indotta tramite condizionamento.
Questo studio è oggi considerato particolarmente immorale sia perchè è stata indotta una paura in un infante, sia perchè Albert non è mai stato desensibilizzato dalle fobie che Watson ha prodotto in lui. Inoltre, il bambino è morto di malattia all’età di sei anni, e non è stato possibile determinare il perdurare o meno delle sue fobie in età adulta.
2. L’esperimento di Milgram
L’esperimento di Milgram fu un esperimento di psicologia sociale condotto nel 1961 dallo psicologo Stanley Milgram, con l’obiettivo di comprendere come mai così tante persone hanno preso parte agli atti crudeli dell’olocausto. Milgram volle studiare la tendenza umana ad obbedire a figure considerate autorevoli, rispondendo, con la sua ricerca, al seguente quesito: “È possibile che Eichmann (criminale di guerra nazista) e i suoi milioni di complici stessero semplicemente eseguendo degli ordini?”.
I partecipanti alla ricerca furono reclutati tramite un annuncio su un giornale che cercava soggetti disposti a prendere parte ad uno studio sull’apprendimento e sulla memoria. I partecipanti vennero divisi, con un sorteggio truccato, in “allievi” e “insegnanti”. In realtà, tutti i soggetti sperimentali finirono nel gruppo degli insegnanti, mentre gli allievi erano complici dello sperimentatore. L’insegnante (ignaro) doveva porre delle domande all’allievo e, in caso di errore, doveva premere un pulsante e dare all’allievo una scossa (che in realtà non percepiva). Ad ogni errore, la scossa aumentava di intensità e l’allievo doveva fingere implorazioni e lamenti, finche simulava uno svenimento. Durante la prova, lo sperimentatore esortava l’insegnante: “l’esperimento richiede che lei continui”, “non ha altra scelta, deve proseguire”.
I risultati mostrano che, nonostante i sintomi di tensione e le proteste, una percentuale significativa dei partecipanti obbedì allo sperimentatore procedendo nell’intensità delle scosse.
Questo obbedienza fu spiegata alla luce del fatto che la presenza di una figura autoritaria considerata legittima (uno scienziato di Yale) può condurre il soggetto a non sentirsi libero di agire in autonomia e non più moralmente responsabile delle sue azioni, ma esecutore del volere di una autorità esterna.
Ovviamente, questo esperimento non potrebbe mai essere condotto al giorno d’oggi in quanto i partecipanti vennero messi al corrente del reale scopo della ricerca solo in seguito, con il rischio di incorrere danni psicologici.
3. L’effetto spettatore o “bvystander effect”
L’effetto spettatore o “bystander effect” fu approfondito da due psicologi, Bibb Latané e John Darley, dopo il tragico omicidio di una giovane donna avvenuto a New York nel 1964. Kitty Genovese era una ragazza che fu aggredita, pugnalata e violentata mentre, a notte fonda, stava rientrando a casa. Ricostruendo la dinamica dell’aggressione (che durò circa 30 minuti), la polizia si rese conto che circa 38 persone erano state testimoni almeno parziali dell’accaduto, udendo grida e schiamazzi dalle loro abitazioni, ma nessuno era intervenuto per chiamare la polizia o l’ambulanza.
Latanè e Darley cercarono di dare una spiegazione del mancato intervento e dell’apparente disinteresse nei confronti di un prossimo in difficoltà conducendo una serie di esperimenti. Nel primo, alcuni studenti venivano convocati in una stanza per compilare un questionario. Mentre gli studenti erano concentrati nel rispondere alle domande, un fumo bianco (in realtà innocuo) cominciava a riempire la stanza. Quando i soggetti sperimentali erano soli ad osservare la scena, entro i primi minuti avvisavano qualcuno; quando vi erano più soggetti sperimentali, oppure un soggetto sperimentale affiancato da diversi complici istruiti a fingere disinteresse per quello che succedeva, spesso non veniva fatta nessuna richiesta d’aiuto. Le motivazioni di questo comportamento possono essere spiegate da due meccanismi psicologici: l’ignoranza pluralistica e la diffusione della responsabilità. L’ignoranza pluralistica è quel fenomeno per cui, quando accediamo ad un nuovo ambiente, prendiamo spunto dal comportamento degli altri: se gli altri non fanno nulla, anche il singolo individuo diventa “spettatore”. La diffusione della responsabilità è invece quel fenomeno per cui una persona ha minori probabilità di assumersi responsabilità per un’azione quando altri, che potrebbero prendersela al suo posto, sono presenti.
Gli studi di Latanè e Darley sull’argomento sono diventati progressivamente sempre meno etici, mettendo i partecipanti a rischio di danno psicologico. Ad esempio, nel corso di un altro esperimento, un complice comunicava telefonicamente di avere un attacco epilettico: nel momento in cui ai partecipanti all’esperimento veniva fatto credere vi fossero altre persone all’ascolto, le probabilità che l’aiuto venisse offerto diminuivano.
4. Gli esperimenti di Harlow sui macachi
Negli anni 50, presso l’Università del Wisconsin, lo psicologo Harry Harlow condusse una serie di esperimenti sulla deprivazione materna utilizzando cuccioli di macaco.
Harlow separò precocemente dalle madri i piccoli macachi, che potevano disporre solo di due “sostituti materni”: un fantoccio di panno, morbido ma che non forniva cibo, e uno di filo di ferro, che dispensava latte. I risultati dell’osservazione mostrarono che le scimmiette raggiungevano la “madre” di ferro solamente per soddisfare i bisogni alimentari, mentre trascorrevano la maggior parte del tempo in prossimità della “mamma” di panno, morbida e confortevole.
In questo modo, venne dimostrato che il legame di attaccamento madre-figlio, che si basa su elementi quali il contatto e il calore, è uno dei bisogni primari ed è qualcosa di più rispetto ad un mero soddisfacimento di bisogni fisiologici.
Durante questi esperimenti, Harlow introdusse nella gabbia anche stimoli altamente minacciosi con l’obiettivo di terrorizzare i piccoli macachi, che, come conseguenza, correvano a rifugiarsi dalla mamma di pezza. (…)
Gli esperimenti di Harlow cessarono nel 1985, a causa di una normativa dell’APA contro il maltrattamento degli animali. Tuttavia, recentemente, Ned Kalin dell’Università del Wisconsin ha iniziato esperimenti simili che coinvolgono cuccioli di scimmia, che vengono isolati e esposti a stimoli paurosi. L’obiettivo è quello di scoprire dati preziosi da generalizzare poi ai meccanismi d’ansia negli umani, tuttavia il progetto sta incontrando resistenze da parte dei movimenti animalisti e dall’opinione pubblica.
5. L’esperimento della prigione di Stanford
Nel 1971, Philip Zimbardo condusse un esperimento presso l’Università di Stanford che si proponeva di esaminare il comportamento dei gruppi e l’importanza dei ruoli.
Zimbardo e il suo team selezionarono per l’esperimento un gruppo di 24 studenti universitari di sesso maschile, considerati “sani”, sia fisicamente che psicologicamente. Gli uomini avevano firmato per partecipare ad uno “studio psicologico sulla vita carceraria” sotto compenso giornaliero. L’esperimento prese luogo nel seminterrato del dipartimento di psicologia della Stanford dove la squadra di Zimbardo aveva ricreato l’ambientazione di una prigione. I partecipanti furono assegnati casualmente al gruppo dei detenuti o al gruppo delle guardie: i prigionieri furono vestiti con divise da carcerati, mentre le guardie indossavano uniformi ed erano dotati di manganello. Alle guardie furono date istruzioni vaghe sul comportamento da adottare, che non doveva trascendere in atti di violenza ma doveva essere chiaramente mirato a mantenere l’ordine. La prima giornata trascorse senza particolari incidenti, ma già il secondo giorno i prigionieri si ribellarono al comportamento direttivo delle guardie barricandosi nelle loro celle. I carcerieri reagirono intimidendo e umiliando i carcerati, sottoponendoli a punizioni, umiliazioni pubbliche e isolamento. Al quinto giorno i prigionieri mostrarono un’evidente e drammatica sofferenza: il loro comportamento era diventato passivo e docile, e vi erano chiari segni di disturbi emotivi. Nel frattempo, le guardie continuavano a comportarsi in modo vessatorio e sadico. (…) L’esperimento, che originariamente doveva durare per due settimane, fu interrotto al quinto giorno a causa dei risvolti drammatici inaspettati. (…)
L’esperimento mostra come l’assunzione di un ruolo istituzionale induce ad assumere le norme e le regole dell’istituzione come unico valore a cui il comportamento finisce per conformarsi, con una perdita di responsabilità personale e una sostanziale identificazione con le azioni intraprese dal gruppo di appartenenza (meccanismo di “deindividuazione”).
L’esperimento di Zimbardo è un altro classico della psicologia sociale che non sarà possibile ripetere per chiari motivi di ordine etico.
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