Di Lawrence Sudbury
Notoriamente l’Islam è la religione in più rapida crescita nel mondo e quella, con il Giudaismo, più rigidamente monoteistica: il “tawheed” (la concezione dell’unicità di Dio) è così fondamentale che la prima frase della “Shahadada”, la dichiarazione di fede che costituisce il primo pilastro dell’Islam, proclama, in modo non dissimile dal “Sh’ma Yisrael” ebraico, il più inequivocabile credo monoteistico (“Ash-hadu an laa ilaaha illallah”, letteralmente “io testimonio che non vi è alcun Dio all’infuori di Allah”). Tenendo conto che in tutto il Corano ogni riferimento ad Allah avviene con il pronome di terza persona maschile, risulta chiaramente la qualità evidentemente e prettamente maschilista dell’Islam, che non lascia alcuno spazio ad alcuna forma di femminilizzazione del divino. Insomma, oggettivamente, nell’analisi dell’Islam dobbiamo ammettere di trovarci di fronte ad una completa esclusione del femminino sacro.
Almeno apparentemente.
In realtà, però, l’Islam non nasce dal nulla, ma da un substrato religioso molto composito ben presente e radicato nell’Arabia pre-islamica, un substrato in cui il concetto di divinità femminile è evidente e che riemerge, qua e là, all’interno della concezione maschilista musulmana.
Così, il luogo più sacro dei Musulmani è la Kaaba, alla Mecca, che contiene la pietra meteoritica nera, oggetto di venerazione da ben prima dell’avvento dell’Islam e che, in origine, era il “trono di Iside”(nota del blog, probabilmente l'articolista si riferisce alla dea Ishtar, analoga babilonese dell'egiziana Iside); così il simbolo dell’Islam è la Mezzaluna crescente (a volte insieme ad una stella) che originariamente era segno di riconoscimento (anche come tatuaggio delle sacerdotesse) del culto della Grande Dea babilonese; così altri oggetti considerati “sacri” sono le torri (propriamente minareti) delle moschee, che erano uno dei simboli principali del paganesimo babilonese sin dai tempi di Nimrod (la cui moglie, Semiramide, eresse una torre di 130 metri a Babilonia, davanti alla quale tutti si prostrarono[1]) e che (anche in forma di obelisco) erano originariamente simbolo della fecondazione della madre terra nel contesto del culto solare legato a Baal[2].
Minareti, culti meteoriti, mezzelune e la Stella babilonese sono, dunque, tutti rimandi a culti pagani precedenti in cui il femminino sacro è molto evidente.
Tutto ciò ci rimanda inequivocabilmente al culto della fertilità mesopotamico legato a Baal, un culto evidentemente solo nominalmente sostituito con gli dei del deserto (l’aramaico Allah e il Hubal yemenita) ma sostanzialmente inalterato. Ebbene, proprio in tale culto era implicita e sempre presente la relazione tra un alto dio maschile e una “dea madre”, nata dal riflesso di una società primitiva tribale in cui la famiglia era nucleo centrale, alla base dei rapporti di solidarietà, ricchezza, protezione e sostegno quotidiano e in cui risultava naturale l’esistenza di una famiglia divina a cui rivolgere preghiere.
Comunque stiano le cose, di particolare importanza è la presenza di un ossequio a tre dee, collaboratrici di Allah e oggetto di culto, di radice evidentemente riconducibile ai culti astronomici babilonesi, nel pantheon pre-islamico.
Sussiste anche la possibilità che, all’interno della famiglia divina, non esistesse una “Gran Madre” sottintesa ma, in una sintesi sincretistica tra concezione di generatività e generato (presente, per altro, in numerose altre culture, ad esempio in miti relativi Shingmoo in Cina, Hertha nell’antica Germania, Nutria in Etruria, Indrani in India, Afrodite in Grecia, Venere a Roma, Cibele in Asia Minore e Cartagine, Diana a Efeso, Iside in Egitto, etc), essa fosse espressa proprio attraverso le cosiddette “figlie di Allah”, Al-Lat, Manat e Al-Uzza, le cui figure vale la pena di analizzare un po’ più approfonditamente.
Infine, Al-Uzza era stata portata alla Mecca dai Quraysh e aggiunta ai culti già stabiliti nella Kaaba. Al tempo di Maometto era la più importante delle divinità meccane, forse a parte Hubal (il Signore), probabilmente un altro termine per definire Allah. Il suo santuario principale era in una valle chiamata Hurad, appena fuori Mecca, dove sorgeva un haram e un altare sacrificale molto frequentato[18], su cui venivano immolati inizialmente esseri umani e poi animali (sebbene a Duma e Hira i sacrifici umani continuassero). Anche Maometto, in gioventù, secondo la tradizione, aveva sacrificato una pecora a Al-Uzza (e questo atto potrebbe benissimo essere stato compiuto sul Monte Hira, noto luogo di devozione al dio della luna Allah e sua figlia al-Uzza e sul quale avvenne poi l’incontro tra Maometto e l’angelo) ma si narra che durante lo scontro armato tra i meccani e i Musulmani a Badr i primi innalzarono il vessillo di al-Uzza in battaglia e che per questo, dopo la vittoria, il Profeta inviò Khalid ibn al-Walid (che poi conquistò la Siria all’Islam), a distruggere il tempio di al-Uzza a Nakhla[19].
Una volta distrutti tutti gli idoli, Allah regnava incontrastato nel Hijaz e la dea madre era scomparsa dalla sfera della religione araba, ma essa sopravvive ancora nelle leggende musulmane in quelli che vengono comunemente definiti i “versetti satanici”, un capitolo della vita di Maometto che i Musulmani vogliono dimenticare e che, per le vicende che seguirono, ha reso famoso, qualche anno fa, un romanzo omonimo di Salman Rushdie.
L’ambientazione è la Mecca, alcuni anni prima della Hijra, molto probabilmente nel 619 d.C., quando il protettore di Maometto, Abu Talib, e sua moglie, Khadija, erano entrambi morti o in punto di morte. I meccani erano diventati sempre più ostili verso il Profeta e ridicolizzavano la sua missione in ogni modo possibile. La cosa peggiore era che spesso lo tentavano promettendogli fama e fortuna se si fosse astenuto dall’attaccare le loro divinità. Maometto non era disposto a compromettere la sua missione e aveva sempre declinato le loro offerte, finché, come narra al-Tabari, non arrivò la tentazione più grande, quando i meccani offrirono a Maometto un compromesso tale per cui egli avrebbe adorato al-Lat e al-‘Uzza per un anno, e essi avrebbero adorato Allah per un anno.
A questo punto i Profeta, tentato da Satana, avrebbe risposto, secondo al-Tabari:
“Che ne pensate voi di al-Lāt e di al-ʿUzzā
e di Manāt, il terzo idolo?
Ecco le gharānīq, la cui intercessione è cosa grata a Dio“[20]
(Ṭabarī, Jāmiʿ al-bayān ʿan taʿwīl al-Qurʾān, XVII, pp. 186-90)
La parola araba “gharānīq” del “verso satanico” è un “hapax”, un vocabolo che ricorre solo in questo testo, e si riferirebbe, secondo i commentatori, alle gru della Numidia ma, poiché un titolo della triade sacra era “le tre sublimi gru”, il significato implicito era quello di un’ammissione dell’esistenza delle tre divinità e un’attestazione del loro ruolo come intermediari divini.
Secondo Ṭabarī, le parole destarono forte stupore tra gli astanti che non si aspettavano che Maometto scendesse a patti con il politeismo pagano della stragrande maggioranza della città. Conseguentemente, sempre secondo al-Tabari, sarebbe stata avviata una preghiera collettiva per sottolineare la ritrovata concordia cittadina e la notizia dei “versetti satanici” avrebbe persino convinto alcuni emigrati (“muhājirūn”) a tornare dall’Abissinia, dove si erano rifugiati.
La mattina seguente, infatti, Maometto ritrattò quanto affermato, chiarendo che le parole gli erano state sussurrate all’orecchio sinistro (e non a quello destro, come normalmente faceva l’arcangelo Gabriele) e che quindi erano di origine satanica.
I “versetti satanici” furono disconosciuti da Maometto che fornì, al loro posto, l’autentica rivelazione:
“Che ne pensate voi di al-Lāt e di al-ʿUzzā
e di Manāt, il terzo idolo?
Voi dunque avreste i maschi e Lui le femmine?
La divisione sarebbe iniqua!
Esse non sono che nomi dati da voi e da’ vostri padri,
pei quali Iddio non v’inviò autorità alcuna.
Costoro non seguono altro che congetture e le passioni dell’animo,
mentre già giunse loro dal Signore la Guida“[21]
Che cosa significa questa “correzione”? In una società patriarcale come quella araba era considerato un peccato avere solo figlie (come accaduto proprio a Maometto che pare fosse notevolmente imbarazzato per questo motivo) e, dunque, nel caso le tre divinità fossero state reali, Allah sarebbe risultato imperfetto a causa della sua incapacità di procreare figli maschi. Inoltre, come sostenuto da Alfred Guillaume[22], l’interpolazione avrebbe reso quegli esseri divini o semi-divini intercessori di Allah, un ufficio che nell’Islam doveva essere accordato solo a Maometto stesso.
Conseguentemente le parole pronunciate da Maometto vennero successivamente eliminate dalla versione canonizzata del Corano, rimanendo, però, in un canto che i meccani utilizzavano quando camminavano intorno alla Pietra Nera[23].
Resta il fatto che, seppur per poche ore, il Profeta fosse sceso a compromessi seri con il paganesimo, con conseguenze fondamentali, dal momento che, se questa leggenda fosse vera (come ammesso in generale da numerosi commentatori musulmani), dovremmo pensare che non esista alcuna certezza che altre parti del Corano non siano state ispirate da Satana e non da Dio. Una delle più belle hadith riporta è il seguente discorso di Allah a Maometto: “il mio servo [Maometto] mi è sempre vicino con le sue opere volontarie di pietà, tanto che ho imparato ad amarlo e da quando lo amo io sono il suo occhio, il suo orecchio, la sua lingua, il suo piede, la sua mano. Egli vede attraverso di me, sente attraverso di me, parla attraverso di me, si muove e prova sentimenti attraverso di me“[24], ma se Maometto è “pura creta nelle mani di Dio”, come avrebbe potuto Dio stesso ammettere l’esistenza di divinità femminili? Il Profeta risolse il problema affermando: “Non inviammo prima di te nessun messaggero e nessun profeta, senza che Satana si intromettesse nella sua recitazione. Ma Allah abroga quello che Satana suggerisce. Allah conferma i Suoi segni. Allah è sapiente, saggio“[25], ma rimane l’incongruenza della possibilità satanica di interpolare il messaggio divino trasmesso direttamente attraverso il Profeta.
Senza addentrarci in questioni teologiche che poco ci riguardano, ciò che conta è che alla base del proto-islamismo (e, si sarebbe quasi tentati di dire, in competizione con esso) troviamo istanze di femminino sacro ben evidenti che, sebbene progressivamente nascoste da una società fortemente maschilista, tendono a riemergere in simboli, azioni, discorsi ancora vivi ed attivi nell’Islam odierno.
Proprio riguardo alla figura della Sophia, Ibn Arabi afferma che la sua natura universale (“tavi’at al-kull”) “è il lato femminile o materno dell’atto creativo. Lei è il ‘misericordioso soffio’ di Dio” [Nafa ar-Rahman]“[28] e che essa è anche la dimora di Dio perché “Dov’era il vostro Signore prima di creare la Creazione? Era in una nuvola, non c’era spazio sopra o sotto e la nuvola era la sua Saggezza“[29] ’46.
Infine, all’interno dell’Islam sufi, i principi divini maschile e femminile sono caratterizzati dalla penna e dalla tavoletta: la penna è Dio che scrive sul tabula rasa dell’anima del mondo[30], con un forte riferimento all’atto generativo e alla congiunzione tra principio maschile e femminile.
Ecco, dunque, che, ancora una volta, ritorna il principio generativo come nucleo fondamentale, pur nascosto e dissimulato, del senso religioso. Ma, in una società in cui la componente maschile impera al punto da informare di sé pervasivamente l’intero ambito religioso, anche il solo riferimento a tale nucleo risulta scandaloso. Eppure, il principio primo archetipico maternale trova comunque il modo di riemergere …
[1] Daniele, cap.3
[2] I Re 14:23, 2 Re 18:4, 23:14, Isaia 17:08, 27:9, Ger. 43:13; Ez. 08:05; Michea 5:13
[3] C. Farah, Islam, Barron’s Educational Series 2003, p.28
[4] I Re 19:18
[5]W. Robertson Smith, Lectures on the Religion of the Semites, II, Sheffield Academic Press 2009, p. 109 ss.
[6] A. Guillaume, The Life of Mohammad, Oxford University Press 2002, p.49
[7] Ad esempio F.E. Peters, Muhammad and the Origins of Islam, State University of New York Press 1994, pp. 98 ss.
[8] A. McLean, The Triple Goddess: An Exploration of the Archetypal Feminine, Phanes Press 1991, passim
[9] M. Stone, Ancient Mirrors of Womanhood: A Treasury of Goddess and Heroine Lore from Around the World, beacon Press 1990, passim
[10] A. McLean, Citato, pp. 80 ss.
[11] J. Teixidor, The Pantheon of Palmyra, Brill Academic 1997, pp. 55-58.
[12] A. Guillaume, Citato, p.61
[13] P. Hitti, History of the Arabs, Palgrave Macmillan 2002, p.98
[14] T. Andrae, Qu’ran, Religion and Theology, Volume 1, Routledge 2008, p.87
[15] E. Neumann, The Great Mother an Analysis of the Archetype, Kessinger Publishing 2004, pp.67-68
[16] A. Guillaume, Citato, p. 207
[17] F.E. Peters, Citato, p.110
[18] A. Guillaume, Citato, p. 108
[19] Ivi, pp. 565-566
[20] al-Ṭabarī, Jāmiʿ al-Bayān ʿan Taʿwīl al-Qurʾān, XVII, pp. 186-90
[22] A. Guillaume, Citato, pp. 112 ss.
[23] Ivi, p. 36
[24] I. Goldziher, Mohammed and Islam, General Books LLC. 2010, pp.42-43
[25] Corano, 22:52
[26] K. Cragg, Counsels in Contemporary Islam, ACLS Humanities 2008, p.81
[27] H. Corbin, Swedenborg & Esoteric Islam, Swedenborg Foundation Publishers 1995, p.47
[28] T. Burckhardt, Introduction to Sufi Doctrine, Fons Vitae 1997, pp.67-69
[29] ivi
[30] L. Bakhtiar, Sufi: Expressions of the Mystic Quest, Thames & Hudson 2004, pp. 86 ss.
TITOLO ORIGINALE:"Islam e femminino sacro: una relazione nascosta"
Commenti
Posta un commento
Partecipa alla discussione