Fino ad una ventina di anni fa, tutti coloro che si trovavano nella morbosa condizione di voler ad ogni costo conoscere i dettagli della vita privata o intima dei propri amici erano costretti fisicamente ad inginocchiarsi di fronte all'uscio di casa altrui, nel tentativo di scorgere qualche spezzone di vissuto familiare dal proverbiale buco della serratura.
L'ideazione dei social networks ha comportato un rapido superamento delle pratiche legate a ginocchia e cannocchiali e fatto in modo che tutti gli aspiranti spioni potessero accedere ad informazioni altrui, anche a fronte di una resistenza individuale, mediante qualche piccolo stratagemma consistente nellacreazione di falsi profili Facebook, grazie ai quali diventare (falsi) amici dell'oggetto d'interesse e stringere un rapporto di (falsa) confidenza sulle piattaforme virtuali.
Il proprietario di un'azienda abruzzese, ad esempio, ha avuto la brillante intuizione di chiedere l'amicizia su Facebook ad un dipendente sospettato di protratto assenteismo sul lavoro e di monitorare così la quantità di tempo che il giovane stampatore dedicava a torni e presse e quella che invece veniva destinata alla cura dell'orticello sociale in orari in cui percepiva uno stipendio per fare tutt'altro.
Dopo aver abboccato all'amo digitale, il protagonista della vicenda si è trovato così a perdere il proprio lavoro a seguito dell'opera di spionaggio virtuale operata dai suoi capi, dal momento che pare che l'operaio riponesse molta più dedizione nei confronti di Facebook di quanta non ne riservasse al suo lavoro e che la cosa sia manifestata, appunto, dal numero di interazioni messe in atto dal dipendente su Facebook.
Confidando nell'inammissibilità dei mezzi attraverso i quali era stato spiato, l'operaio abruzzese si è rivolto al tribunale locale al fine di ottenere il suo reintegro sul posto di lavoro e di far cadere le motivazioni legate alla “giusta causa” dal licenziamento, dal momento che, secondo lui, le informazioni che hanno portato alla cessazione unilaterale del rapporto di lavoro erano state ottenute violando il rapporto di fiducia tra azienda e dipendente e dunque in aperto contrasto con il codice etico che regola il mondo del lavoro.
Dopo tre gradi di giudizio, la Corte di Cassazione ha rigettato le richieste dell'ex-dipendente, emanando una sentenza che di fatto autorizza i datori di lavoro a spiare i dipendenti tramite Facebook, ritenendo la pratica come funzionale a "riscontrare e sanzionare un comportamento idoneo a ledere il patrimonio aziendale” e dunque pienamente ammissibile e assimilabile ai comuni controlli sul lavoro.
Premesso che la vicenda risulta logicamente controversa e che stabilire i confini di quanto sia legittimo appare piuttosto difficile in un mondo che ha rapidamente mutato costumi e sistemi di comunicazione, ancor più difficile risulta stabilire dove finiscano le colpe del dipendente e inizino quelle dell'azienda.
Creare un falso profilo per spiare qualcuno non è sicuramente un'azione dal livello morale eccelso o qualcosa che necessiti di essere insegnato sui banchi di scuola, ma, in fondo, non lo è nemmenopercepire uno stipendio per trascorrere il tempo dedicato al lavoro in tutt'altre faccende affaccendati o per navigare su internet a spese dell'azienda.
L'unico consiglio che ci sentiamo di dare a chi si trovi nelle medesime condizioni del dipendente licenziato è quello di riporre molta attenzione alla scelta delle amicizie da accettare su Facebook e dei buchi della serratura che si intende lasciare liberi allo sguardo; in fondo, anche l'assenteismo appare meno grave se lo si guarda mentre ci si trova in ginocchio.
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