Intervista di Stefano Magni a Michela Mercuri
Sono passati quasi quattro anni dalla caduta di Gheddafi. Come mai in Libia, invece di costruire un nuovo Stato è scoppiata un'altra guerra civile?
La risposta va ricercata nella connotazione socio-politica del Paese. Storicamente, a differenza degli altri Stati della primavera araba, Egitto e Tunisia in primis, la Libia non ha mai avuto delle reali istituzioni, ma è stata per più di un quarantennio la Jamahiriyya di Gheddafi una sorta di “struttura” senza partiti politici, senza elezioni e neppure una società civile degna di questo nome in cui è sempre rimasta forte la connotazione tribale e localistica. A differenza degli altri Paesi, dove è stato possibile “liberarsi del dittatore” ma tenere in piedi, in qualche modo, una sorta di apparato statale, nel caso della Libia la caduta del Colonnello ha implicato il collasso del sistema, con la rinascita di tutti quei fermenti localistici e quelle rivendicazioni tribali soltanto sopite durante il lungo dominio di Gheddafi. Molte delle fazioni attive durante la guerra sono state ben armate (direi in maniera un po’ miope) dalle forze internazionali della coalizione e non hanno mai voluto rinunciare alla propria porzione di potere e di armamenti. Le bande armate, unite durante il conflitto dal minimo comune denominatore dell’annientamento di Gheddafi, si sono poi divise per perseguire i propri interessi particolari, controllando, ciascuna, la propria fetta di territorio. In questo risiko così frammentato non è stato difficile per i miliziani islamici della coalizione Alba libica conquistare Tripoli, creando un governo ombra che compete con il governo formatosi a seguito delle ultime elezioni di giugno 2014 e riconosciuto dalla comunità internazionale ma oggi “esiliato” a Tobruk.
A cosa mira il governo di Tripoli? E a cosa, invece, quello di Tobruk?
In poche parole, entrambe le “fazioni” mirano al controllo del paese ed all’affermazione della propria legittimità. Più in particolare, il governo di Tobruk, guidato Abdullah Al Thani, e militarmente dal generale Khalifa Haftar, combatte per la riconquista della capitale e per riportarla sotto il proprio controllo sottraendola, dunque, alle milizie islamiche di Alba libica,vicine alla fratellanza musulmana e che, di fatto, detengono il potere a Tripoli all’interno del governo “ombra”. Va sottolineato che oltre che della legittimità internazionale, Tobruk gode dell’appoggio militare dell’Egitto che non solo lo sostiene in chiave “anti-fratelli musulmani” ma nutre anche mire territoriali sulla Cirenaica, l’area più orientale del Paese nordafricano e maggiormente ricca di giacimenti petroliferi.
Quanto è forte e presente lo Stato Islamico in territorio libico?
Si è parlato e si parla tutt’ora con molto clamore dell’avanzata dello Stato Islamico in Libia. In realtà l’Isis in Libia, a differenza di quanto accade in altre realtà come l’Iraq e la Siria, va inquadrato fra tutti quei gruppi armati che sono attivi nel paese dopo la caduta di Gheddafi. Più che parlare di arrivo dello Stato Islamico in Libia, parlerei anche di milizie, già presenti nel territorio, che hanno deciso di affiliarsi allo Stato islamico. Così è stato, ad esempio, già nel 2014 quando una milizia di Derna si è autoproclamata affiliata dell’Isis, e poi, nel marzo 2015, con quella che è stata definiti la “presa di Sirte” ma che in realtà ha visto solo un manipolo di jihadisti provenienti da Egitto, Siria, etc. che hanno avuto poi il supporto dei guerriglieri locali e delle milizie di Ansal -al Sharia che li hanno visti come un buon modo per ridare smalto al loro potere nella zona. Con ciò non intendo certo dire che il fenomeno sia meno preoccupante e pericoloso e, anzi, va a corroborare il “fascino” crescente che la propaganda del Califfo esercita nell’area.
Perché nessuna delle parti riesce a vincere la guerra?
Ad oggi in Libia abbiamo circa 230 milizie armate e 140 tribù, che si muovono in un sistema mobile e mutevole di alleanze e guerriglie interne che rendono molto difficile capire quali siano gli schieramenti in campo e quale la loro forza bellica. Ci sono fazioni che contano 100-200 uomini altre più grandi come la brigata Zintan con almeno 5.000-6.000 combattenti, per arrivare alle milizie di Haftar con 35.000 uomini. Certo è che nessuna delle forze in campo ha un potenziale così forte da prevalere sulle altre e per questo l’instabilità è costante. Volendo semplificare la galassia degli schieramenti possiamo dire: a Tripoli e Misurata agiscono le milizie islamiche del governo guidato da Fajr Libia (Alba libica) legate ai Fratelli Musulmani, dunque ostili all'Egitto ma anche in competizione diretta con le milizie dell’Isis; l’esercito di Tobruk e le milizie islamiste Fajr continuano a combattersi. Queste stesse milizie starebbero assediando Sirte, la città conquistata di recente dallo Stato Islamico. A Derna e Bengasi, poi, oltre alle bande armate “locali” ci sono anche i miliziani dello Stato Islamico. Tutte le bande sono ben armate, alcune con le stesse armi fornite dalla coalizione per sostenere i ribelli contro Gheddafi. Non solo, molte delle principali milizie ricevono, più o meno velatamente, costanti aiuti dai paesi vicini. Così se l’Egitto di Al-Sisi combatte apertamente accanto ad Haftar, il Qatar offre aiuti finanziari e militari ai fratelli musulmani del governo di Tripoli.
Da quando in Libia è scoppiata di nuovo la guerra, il flusso di emigranti è aumentato esponenzialmente. E' solo per la mancanza di controllo delle coste, oppure qualcuna fra le parti in guerra ha interesse a far lucrare gli scafisti?
I migranti “si imbarcano” per la più parte dalle zone controllate dal governo di Tripoli, difeso dalle milizie islamiste di Fajr Libia. Faccio fatica a credere gli islamisti al potere a Tripoli non chiudano più di un occhio (nella migliore delle ipotesi) sui flussi. “Il commercio di esseri umani” genera importanti introiti – si parla di 34 miliardi di dollari l’anno con un guadagno medio di circa 150 mila dollari per ogni tratta – che credo facciano gola sia alle organizzazioni criminali sia ai vertici politici. Mi limito ad un esempio. Dalle coste di Zuara, città alleata di Fajr Libia - a poco più di 50 km dalla frontiera tunisina - si registra il maggior numero di partenze e non credo che le motovedette libiche si limitino ad ignorare gli scafisti. Serve anche garantire assistenza ed appoggi ai trafficanti di uomini. Dunque, se da un lato è assodato il fatto che per ogni tratta venga pagato il pizzo (circa il 10%) ai miliziani che controllano le varie zone di partenza, dall’altro non credo che i vertici al potere a Tripoli siano indifferenti alle cifre generate da questi traffici.
L'Onu ha scelto la via della mediazione fra i due governi. E' possibile, in tempi ragionevoli, la formazione di un governo di unità nazionale?
Credo che sia molto difficile, sia per come stanno ora le cose sia alla luce dei condizionamenti esterni. Mi spiego meglio. In primo luogo, qualora si dovesse riuscire a mettere i due governi intorno a un tavolo, sarà necessario tenere conto del fatto che dietro di loro si muovono altre potenze regionali a cui sarà necessario “allargare la trattativa”. Dietro al governo di Tobruk c’è l’Egitto, dietro a quello di Tripoli il Qatar e la Turchia. E questo complica le cose. In secondo luogo un governo di unità nazionale, stando così le cose, dovrebbe vedere, almeno sulla carta, un primo ministro espressione più del governo di Tobruk, essendo quello legittimamente eletto, ma con delle limitazioni e con delle “vicepresidenze” per non scontentare Tripoli. I due parlamenti potrebbero continuare a esistere ma si creerebbero delle formule ancora ambigue. Quindi, anche formando un governo di unità nazionale, questo potrebbe generare un sistema poco chiaro.
L'Ue ha finora optato per una missione di salvataggio in mare aperto, Triton, che ora è contestata. Avrebbe senso tornare a Mare Nostrum?
Sono due tipologie di missioni diverse, Triton è finalizzata al controllo ed è di natura difensiva, Mare Nostrum è rivolta al soccorso. Certo è che Mare Nostrum, per sua stessa natura, tende ad agevolare il traffico degli scafisti che possono contare su una sorta di “servizio navetta” fornito dalla Marina, utilizzando le loro barche giusto per scaricare in mare il loro carico di disperati (che verranno presto soccorsi) per poi tornare in Libia per un nuovo carico. Alla luce di ciò credo che sia giusto tenere e rafforzare Triton ma che questa vada integrata e rafforzata con altri mezzi e con una chiara strategia politica europea e internazionale per arginare la minaccia dei trafficanti con una azione congiunta sotto egida Onu e con un’Europa decisamente più partecipe!
L'Italia, di fronte a una crisi oltremare simile (anarchia e flusso incontrollato di immigrati) era intervenuta in Albania nel 1997. Lo potrebbe fare anche in Libia?
Ci sono molte similitudini, è vero, e l’idea non certo da accantonare. Dobbiamo però tenere conto del fatto che il blocco navale è un’operazione militare dai contorni molto precisi su cui il diritto internazionale parla chiaro: senza un esplicito assenso della Libia e delle Nazioni Unite, mettere in pratica un blocco navale lungo le sue coste è un atto di guerra. Dunque credo che sia necessario inquadrare tale azione in una chiara strategia condivisa, tenendo conto delle attuali criticità. In primo luogo è necessario un accordo con la Libia (un accordo c’è stato con l’Albania), che per ora ha due governi divisi: quello di Tobruk e quello di Tripoli (che peraltro controlla le zone di imbarco). Tripoli non ha mostrato alcuna intenzione di scendere a patti con l’Italia (o l’Europa), mentre Tobruk, il governo riconosciuto e con cui un accordo sarebbe più agevole, di fatto non controlla le zone interessate. In secondo luogo per ora non esiste nessuna strategia condivisa a livello europeo e internazionale, se non quella del minimo comun denominatore emersa a Bruxelles (triplicare Triton e offrire qualche nave non è una strategia). L’Unione europea ha deferito all’Alto rappresentante per la politica estera Federica Mogherini il compito di proporre azioni da discutere anche in sede Onu per combattere i trafficanti. Credo sia necessario parlare di questa opzione in sede Onu e provare ad agire con la collaborazione e l’avallo della comunità internazionale.
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