Di Andrea Mazzi
La storia di Liljana è una delle tante che i volontari del servizio “Maternità difficile e vita” della Comunità Papa Giovanni XXIII si sono sentiti raccontare in questi anni dalle donne incinte che hanno aiutato, istigate all’ aborto da chi dovrebbe aiutarle.
“Puoi picchiarmi finché vuoi, ma se Dio vuole che nasca, nascerà!”
Diceva il fondatore della nostra Comunità, don Oreste Benzi: “E’ nostra esperienza che la scelta di abortire non sia libera, ma condizionata dalle persone e dalle situazioni in cui la mamma si viene a trovare e di cui non trova una via d’uscita”. Nella maggior parte dei casi queste spinte nascono nell’ambiente familiare, o dal partner, come in questo caso di Liljana. Ma la vulgata vuole che “l’aborto non si tocca”, perché ”la donna ha diritto di scelta”…
“Mi chiamo Liljana, ho 37 anni, sono originaria dell’Albania ma vivo in provincia di Modena da 15 anni. Sono arrivata in Italia assieme a mio marito, con cui mi ero sposata nel 1992.
Il nostro matrimonio è andato bene per diversi anni, e nel 2001 è nata la nostra prima figlia, Elisabetta. A fine 2005 ho scoperto di essere nuovamente incinta di una bambina. Mio marito non ha accettato un’altra femmina, e mi ha detto che dovevo abortire; mi ha anche proposto di andare in Albania, dove si trova chi esegue aborti fino al 6°-7° mese. Io mi sono rifiutata: “Prima di ammazzare mia figlia, devi ammazzare me!”, gli ho risposto.
Abbiamo iniziato a litigare, e lui mi ha picchiato. Non mi aveva mai messo le mani addosso fino ad allora. “Ti faccio abortire con le mie botte!” mi diceva; ma io rispondevo: “Puoi picchiarmi finché vuoi, ma se Dio vuole che nasca, nascerà!” Ha iniziato a picchiare anche nostra figlia Elisabetta, di 5 anni.
Era talmente adirato per questo fatto che ha smesso di lavorare (faceva il muratore), dicendomi: “Se tu vuoi tenere le tue figlie e non vuoi abortire, vai a lavorare tu per mantenerle, dato che sai fare solo delle femmine.”
A giugno 2006 è nata Sara. Lui non l’ha riconosciuta e non è nemmeno venuto in ospedale a vederla. Diceva: “Non me ne frega niente, per me può anche morire.” Dopo un po’ se n’è andato di casa.
I servizi sociali del Comune erano al corrente dei maltrattamenti, e mi avevano già invitato a lasciare mio marito, ma senza offrirmi un’alternativa. Quando però lui è andato via, mi hanno assegnato una casa popolare: una casa umida, a diversi chilometri di distanza dal centro del paese.
Dopo poco più di un anno è tornato, io l’ho accolto perché mi aveva detto di essere cambiato.
In breve però sono rimasta nuovamente incinta, e lui ha ricominciato: “Se è femmina, devi abortire”. “Se è femmina o maschio, lo tengo comunque! Se tu pensi di comportarti come hai fatto per l’altra figlia, meglio che te ne vai prima! – gli ho risposto – Se Dio mi dà 10 femmine, le devo ammazzare tutte?”
Quando abbiamo scoperto che anche la terza figlia era femmina, ha ricominciato a picchiare me e le due bimbe. Una sera la vicina di casa, sentendo le urla, ha chiamato i Carabinieri. Mi hanno invitato a sporgere denuncia; ma io avevo paura, perché pensavo che, anche se mio marito fosse finito in carcere, una volta uscito me l’avrebbe fatta pagare. Il giorno dopo ha ricominciato con le violenze, e ho chiamato in aiuto mio zio e mio cugino. Quando hanno visto i lividi su Elisabetta, hanno parlato con mio marito e l’hanno spinto ad andarsene. “Se non lo fai, chiamiamo nuovamente i Carabinieri e costringiamo Liljana a denunciarti!” A quel punto lui se ne è andato definitivamente, ed è tornato in Albania.
Quando i servizi sociali hanno saputo che ero nuovamente incinta, mi hanno invitato a dare il bambino in adozione una volta nato, ma io mi sono sempre rifiutata; una volta li ho anche mandati fuori di casa! A parte la casa, non mi hanno mai dato nessun altro aiuto, gli unici aiuti mi sono arrivati dall’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, che ho incontrato durante la mia terza gravidanza. Ad aprile 2008 è nata Ionida. Da allora vivo sola con le mie tre figlie, periodicamente riesco a trovare dei lavori adatti a me che mi permettono di andare avanti.
Non mi sono mai pentita, nonostante i sacrifici che sto facendo. Anche se domani dovessi arrivare a mangiare pane e sale, non mi pentirò mai!”
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