Di Luca Spoldi
Questa volta il cartello “venduto” rischia davvero di essere messo sopra all’intero settore industriale italiano o almeno a gran parte di esso, il che in un paese che già soffre da anni di una deindustrializzazione che mina la crescita senza che il terziario “avanzato” sia stato grado di assumere il ruolo trainante dei grandi gruppi del capitalismo familiare del secolo passato, dovrebbe quanto meno suonare come ulteriore campanello d’allarme. E’ di oggi la conferma, su richiesta della Consob, da parte di Camfin, holding finanziaria che fa capo a Marco Tronchetti Provera (ex genero di Leopoldo Pirelli, da anni socio di controllo dell’omonimo gruppo), di trattative in corso con “un socio industriale internazionale” per definire il trasferimento della propria quota nel capitale diPirelli (26,2%) ad una Newco.
Tale operazione, che per Camfin dovrebbe garantire “stabilità, autonomia e continuità nel percorso di crescita nel tempo del gruppo Pirelli”, che manterrebbe il suo quartier generale in Italia, dovrebbe prevedere secondo indiscrezioni di stampa il trasferimento dei titoli a 15 euro per azione e, inevitabilmente, comportare il lancio di un’Opa totalitaria da 7 miliardi di euro complessivi, con successivo delisting del titolo Pirelli & C. dalla borsa di Milano. La stessa Camfin del resto non è più quotata da oltre un anno, a seguito dell’Opa lanciata nell’ottobre 2013 da Lauro 61 Spa, veicolo societario controllato pariteticamente da un fondo facente capo al gruppo russo Rosneft da un lato e ad una cordata di socio italiani (Marco Tronchetti Provera, Sigieri Diaz, la famiglia Rovati, Unicredit e Intesa Sanpaolo) dall’altro. Ad assumere il controllo della Newco, nella quale reinvestirebbero i soci Camfin, dovrebbe essere China National Chemical Corporation.
Per Rosfnet, che investì in Camfin sulla base di una valutazione di Pirelli di 12 euro per azione, è una buona operazione, per Marco Tronchetti Provera (che di fatto controlla solo più il 5,17% di Pirelli) anche, per le banche e gli altri soci italiani pure. Per il paese non è detto, nonostante gli auspici della parti coinvolte, anche perché nel frattempo la stessa Rosfnet ha fatto avances ad Eni per riuscire a mettere le mani su Saipem, anche se finora il cane a sei zampe ha nicchiato e si capisce perché: attualmente Saipem tratta poco sotto i 9,3 euro per azione e capitalizza poco più di 4 miliardi di euro, col petrolio che oscilla sui 5 dollari al barile, mentre a settembre 2012 era arrivata a valere oltre 37,3 euro per azione (con una capitalizzazione di poco inferiore ai 16,3 miliardi di euro), col petrolio attorno ai 90 dollari al barile. Ma se oggi Eni dovesse dire di no, domani le cose potrebbero cambiare visto che il settore della ricerca ed estrazione mineraria non appare più così proficuo come alcuni anni or sono.
Si tratterebbe dunque solo di attendere il momento giusto e di accordarsi sul prezzo, un po’ quello che sembra il destino che attende Fiat Chrysler Automobiles. Da tempo alcuni analisti sospettano che il disegno di Sergio Marchionne non sia tanto quello di trovare un partner da inglobare per far crescere di taglia il gruppo italo-americano, quanto quello di trovare un acquirente che potrebbe essere General Motors o Ford (partner con cui lo stesso Marchionne ha ammesso una partnership sarebbe “tecnicamente possibile” e industrialmente sensata), piuttosto che Mazda (che consentirebbe di rafforzarsi maggiormente in Giappone e nell’Asia emergente e non solo negli Usa) o un produttore europeo come Volkswagen (da tempo dichiaratasi interessata quanto meno ad alcuni marchi come Alfa Romeo o Ferrari) o Psa Peugeot (che però non sembra convincere Marchionne e in verità neppure troppo gli analisti, avendo produzioni, presenze sui mercati e problemi molto simili alla casa di Torino).
Prima di Fiat Chrysler Automobiles e forse prima di Saipem a passare in mani straniere potrebbe infine essere il controllo di Telecom Italia. Se attorno a Tim Brasil il mercato specula da tempo, in attesa di una possibile cordata America Moviles – Oi o di un’offerta da parte di Vivo (controllata di Telefonica, a sua volta ex socio di controllo di Telecom Italia) peraltro resa più problematica dal fatto che quest’ultima ha già rilevato Gvt, ex controllata di Vivendi, il controllo della capogruppo potrebbe in realtà far gola ad un’altra francese, Orange (l’ex France Telecom), che in questi giorni ha lanciato un piano di investimenti da 15 miliardi di euro per rinnovare la propria rete da qui al 2018.
E proprio sulla rete (italiana) di nuova generazione la questione avrebbe un impatto non trascurabile, specie ora che il piano per la banda ultralarga varato dal governo Renzi ha evitato ogni penalizzazione (di cui pure si era parlato) ai danni dell’ex monopolista telefonico italiano e della sua rete in rame. Solo rumors, infine, per quanto riguarda un altro grande gruppo italiano, quello che fa capo alla famiglia Berlusconi, impegnata in questi ultimi tempi proprio in undoppio rilancio con le offerte di Mondadori su Rcs Libri e di Ei Towers su Rai Way, peraltro tuttora in fase di stallo. Ma anche in questo caso visto che in Europa è già partito un consolidamento sia nel settore editoriale sia in quello delle reti di trasmissione televisive e telefoniche, la sensazione netta che si ha è che il tricolore sventolerà su queste società ancora per pochi anni.
Di per sé non è un male che il controllo possa passare da una mano a un’altra e di certo la nazionalità non può essere il principale criterio per valutare la bontà di un’operazione di finanza straordinaria, quanto le sue ricadute industriali e il beneficio che tale operazione è in grado di apportare agli azionisti e al paese a cui la società “preda” appartiene e dove storicamente opera dando lavoro. Ma in tempi di riforme dalla dubbia efficacia e che intervengono solo dal lato dell’offerta e non della domanda, anche l’apporto potenzialmente benefico derivante da una maggiore apertura dei mercati rischia, nel breve termine, di produrre ulteriori riduzioni della produzione industriale italiana e causare ulteriori problemi di esuberi. E’ purtroppo il frutto non tanto della “globalizzazione” quanto della miopia politica, industriale e finanziaria della nostra "élite dirigente" negli ultimi vent’anni almeno.
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