Intervista di Giulia Di Stefano a Antonia Arslan
Di Giulia Di Stefano
Un vero e proprio best seller, arrivato alla sua 33° edizione, tradotto in tutto il mondo e portato sul grande schermo dai fratelli Taviani nel 2007. Forse per la prima volta nella storia della letteratura italiana, con il suo “La masseria delle allodole”, Antonia Arslan portò all’attenzione del grande pubblico la questione del genocidio armeno. Dall’anno in cui uscì il romanzo, finalista al premio Campiello e vincitore del Premio Stresa di narrativa 2004, si cominciò a parlare di più del sistematico sterminio compiuto dall’Impero Ottomano ai danni degli armeni residenti sul suolo turco nel 1915. La letteratura, allora, venne in soccorso alla storia. Una storia troppo spesso trascurata se non addirittura ignorata, nonostante si trattasse del primo grande genocidio del ‘900, che spianò la strada alla ben più conosciuta shoah degli ebrei. Incontriamo la Arslan all’indomani dell’uscita del suo ultimo lavoro, “Il rumore delle perle di legno”, edito da Rizzoli, un libro dove ancora una volta, attraverso i ricordi della scrittrice e una saga familiare, prende corpo l’immagine viva del suo popolo, prima dopo e durante il genocidio. Antonia è una signora bionda, piccolina, energica, dalla voce cordiale ma ferma.
“Il rumore delle perle di legno”. Per il suo ultimo libro lei ha scelto un titolo evocativo…
Infatti il titolo si richiama all’immagine di quei bar di paese, dove all’entrata c’era spesso una tendina di perle di legno oscillanti, per non fare entrare le mosche. Il ricordo di questo piccolo rumore mi ha riportato alla luce una quantità di immagini della mia infanzia, anche relative al rapporto fra la famiglia armena e quella italiana di mia madre, le luci e le ombre, le bombe dell’ultimo tempo di guerra. E poi la scoperta della dimensione armena ma in un contesto italiano.
Un primo ricordo è quello dell’immagine materna. Anche in questa sua ultima opera la figura femminile ha un risalto particolare?
In effetti la figura di mia madre è centrale rispetto al racconto. Era una persona particolare, un po’ lunatica, talvolta difficile ma allo stesso tempo aveva un’energia così travolgente che non si è mai fermata di fronte a nessun ostacolo della vita.
Come sono allora queste donne armene della diaspora?
Mi vengono in mente quelle della diaspora americana, che sono tante, ed essendo un bel gruppo hanno conservato di più usi e tradizioni. Sono innanzitutto molto materne, poi sono molto lucide, metodiche, grandi imprenditrici e lavoratrici. Quando però tornano a casa ci tengono moltissimo a custodire e ricreare il calore della famiglia, inoltre spesso tengono loro il bilancio familiare. E poi sono donne molto colte, all’avanguardia e i mariti in un certo senso le seguono.
In uno dei suoi ultimi romanzi, Il libro di Mush, racconta come l’essere donna e la cultura del testo scritto si fondano spesso nella storia armena…
Innanzitutto per necessità, perché durante il genocidio gli uomini furono sterminati mentre le donne subirono la deportazione, quindi balzarono in primo piano nella ricostruzione dell’identità del loro popolo. Gli ultimi ritrovamenti storici hanno poi testimoniato quanto le bambine armene in Anatolia, anche nei paesini più sperduti, fossero all’epoca quasi tutte alfabetizzate. Armeni ed armene dell’Anatolia erano tutti alfabetizzati ed è incredibile se si pensa alla situazione che c’era invece qui in Italia nel 1915. Insomma la comunità armena era sì patriarcale ma aveva grande considerazione delle donne, forse anche per distinguersi dalle comunità mussulmane che convivevano sullo stesso territorio.
Crede che salvare la cultura di un popolo significhi preservarne la memoria?
Assolutamente sì. Mi viene subito in mente la celebre frase dello scrittore statunitense di origini armene William Saroyan, uno dei più grandi del ‘900 americano, quando provocatoriamente diceva di provare a distruggere gli armeni, ma che tanto sarebbero rispuntati fuori. In effetti tanti popoli antichi come il nostro sono stati dimenticati o cancellati del tutto, mentre gli armeni son rimasti.
Narrare la storia attraverso una lente “familiare”, come ha fatto con il suo best seller “La masseria delle Allodole”, crede sia un modo efficace?
Quando crei una storia, crei dei personaggi e se questi personaggi sono ben scritti parlano direttamente al cuore del lettore. Il pubblico italiano, che per primo si è appassionato alla lettura de “La masseria delle allodole”, si è subito identificato nei personaggi e ha amato le loro vicende. Dopo è andato a cercare di sapere qualcosa in più sui fatti storici in cui questi personaggi agivano. Non a caso dopo quel best seller sono usciti molti libri proprio storici sulla questione armena: evidentemente il pubblico aveva un nuovo interesse. Certo è fondamentale attenersi alla verosimiglianza storica anche nel romanzo ma, prima di tutto, quello che conta per il lettore, è sicuramente l’empatia che viene a crearsi con i personaggi.
Si ricorda il momento esatto della sua vita in cui ha compreso con lucidità cosa volesse dire “armenità”?
E’ stato quando ho scoperto la poesia di Daniel Varujan. Sentii arrivarmi l’eco di un qualcosa che sapevo, ma che non era ancora un pugno nello stomaco per me. I colori, gli odori, gli spazi della terra di Anatolia mi riaffiorarono tutto a un tratto e allora capii che questa identità stava cominciando a uscire dal mio “io” più profondo, dove del resto era sempre stata.
Siamo a cento anni dal genocidio: con quali occhi dovremmo leggere il passato e il futuro della questione armena?
Con memoria e giustizia, perché sono necessarie, e poi con il perdono. Ma solo dopo che c’è stato un riconoscimento.
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