Amerli modello per Tikrit? I timori di una crescita repentina e pericolosa dei settarismi interni iracheni si fanno ogni giorno più concreti. Sul campo ciò si traduce nei crimini che secondo le organizzazioni internazionali per i diritti umani i miliziani sciiti hanno compiuto nelle comunità sunnite liberate dal gioco dell’Isis.
A darne la misura è un rapporto pubblicato mercoledì da Human Rights Watch e incentrato sulla comunità sunnita di Amerli, liberata dall’esercito iracheno e dalle milizie sciite a metà novembre. All’epoca quella liberazione fu accolta come il primo passo compiuto da Baghdad per ricacciare indietro l’avanzata islamista: su internet giravano foto e video del capo dei pasdaran iraniani, il generale Suleimani, che si faceva portare in trionfo dopo aver guidato con successo l’operazione.
Cosa è successo dopo lo racconta il rapporto di 31 pagine di Hrw “Dopo la liberazione arrivò la distruzione”. Una serie di interviste, immagini dal satellite e video girati sul posto mostrano la deliberata distruzione di proprietà civili da parte delle stesse milizie liberatrici. I miliziani, scrive Hrw, “hanno saccheggiato le proprietà dei civili sunniti che erano fuggiti durante la battaglia, hanno bruciato le loro case e i negozi e distrutto almeno due interi villaggi”.
Gli scontri furono violenti: le milizie sciite e le truppe di Baghdad circondarono Amerli e i villaggi vicini e portarono avanti una dura offensiva via terra, sostenuta dai raid Usa. Così fu liberata la città occupata per tre mesi dall’Isis, ma a pagarne lo scotto fu di nuovo la comunità sunnita:“Ventiquattro testimoni, tra cui leader tribali locali e peshmerga kurdi, hanno raccontato di aver visto i miliziani [sciiti] saccheggiare le città e i villaggi intorno Amerli dopo l’offensiva contro l’Isis e distruggere le case della città . Hanno visto i miliziani prendere oggetti di valore, come frigoriferi, televisioni, vestiti, prima di incendiare le abitazioni”.
Secondo i testimoni i responsabili sarebbero gli uomini della potente milizia sciita irachena Badr, armata e addestrata dall’Iran. I crimini commessi non aiuteranno di certo il difficile processo di unificazione del paese, dilaniato da settarismi etnici e religiosi riesplosi con la caduta di Saddam. Il nuovo premier al-Abadi lo sa bene e sta tentando, ancora troppo debolmente, di impedire comportamenti che alienano ancora di più la comunità sunnita dal potere centrale. Ma il controllo che Baghdad esercita sulle milizie sciite è minimo e il timore, fondato, è che i sunniti non sostengano la controffensiva governativa contro l’Isis per paura di punizioni collettive sciite.
Insomma, meglio l’Isis di Baghdad. Tale considerazione appare sempre più pericolosa soprattutto in vista della liberazione di Tikrit, roccaforte sunnita e città natale di Saddam Hussein, quindi simbolo cruciale della battaglia contro l’emarginazione della comunità sunnita. La distruzione del mausoleo dell’ex leader, compiuta la scorsa settimana durante scontri a Tikrit, è l’esempio di come l’Iraq difficilmente riuscirà ad avere la meglio su divisioni interne radicate e pericolose, un sostegno concreto al califfato.
Senza dimenticare Mosul, seconda città irachena, a maggioranza sunnita e prossimo target della controffensiva governativa. Se la comunità sunnita guarderà all’operazione come un modo per schiacciare definitivamente le proprie aspirazioni, potrebbe decidere di non sostenere Baghdad, facendo scivolare il paese in una pericolosa guerra civile. Ad avvantaggiarsene potrebbe essere quegli attori arabi e internazionali che puntano ad una disintegrazione dell’Iraq e la sua trasformazione in uno Stato federale, diviso per etnie e religioni, e facilmente controllabile dall’esterno. A favore, cioè, degli interessi regionali, quelli dell’asse sciita guidato dall’Iran e quelli dell’asse sunnita guidato dall’Arabia Saudita.
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