Di Francesco Meneguzzo
A un anno e mezzo dalle elezioni presidenziali statunitensi, è già tempo di bilanci quanto mai fallimentari, tragici e ridicoli, della politica estera di Barack Obama. Negli ultimi mesi tutte le più significative iniziative di un presidente, già azzoppato dalla perdita della maggioranza al Congresso, hanno patito esiti sconfortanti, che vale la pena elencare brevemente di seguito, a partire dall’ultimo.
In Ucraina, il supporto americano prima alla rivolta, secondo alcuni un colpo di stato, del febbraio 2014, risultato nel conflitto interno – o guerra civile – tra il governo centrale e i separatisti russofoni e russofili del sud-est, invece che nell’indebolimento e l’isolamento della Russia è sfociato negli accordi di Minsk del 12 febbraio scorso, mediati dall’Europa – Angela Merkel in testa – e favoriti dalla Russia (Vladimir Putin in persona), senza un ruolo visibile e probabilmente nemmeno invisibile degli Usa.
Mentre tutto sommato la tregua ha retto, proprio ieri tali accordi sono stati effettivamente e concretamente riconosciuti dal Parlamento ucraino, avendo questo emanato la previstalegge sullo status speciale del Donbass e la via per lo svolgimento delle elezioni locali. A parte alcuni dettagli da verificare, rispettando la parola degli accordi. Anche senza voler addebitare agli americani il sangue e la distruzione patito dagli ucraini di ambo gli schieramenti, rimane per Obama un risultato concreto: la cooptazione del figlio del suo vice-presidente Joe Biden, tale Hunter Biden, nel board di BurismaHoldings, una delle maggiori società di petrolio e gas del paese.
Nell’Europa orientale, la pretesa, sponsorizzata dagli Usa, di liberarsi dalla dipendenza energetica da Mosca, e per conseguenza della sua influenza politica, è naufragata nel sostanziale abbandono delle esplorazioni di gas di scisto, come documentato a suo tempo su queste colonne.
In Siria, il supporto ai ribelli anti-Assad, che dal 2011 hanno combattuto il governo legittimo di Damasco, con tanto di minaccia di intervento diretto rintuzzata dalla ferma posizione della Russia e del Vaticano, e dalle perplessità di molte cancellerie europee, è naufragato nella insorgenza incontrollabile del califfato islamico dei tagliagole dell’Isis, tanto che pochi giorni fa lo stesso segretario di stato americano John Kerry, con una improvvisa virata ammetteva lanecessità di trattare direttamente con il presidente siriano Bashar Assad in persona: “Noi lo incoraggiamo” a negoziare, ha affermato Kerr, “e per portare il regime a farlo, dobbiamo spiegargli chiaramente che tutto il mondo è determinato a cercare una soluzione politica”. Deve essere stato quanto meno imbarazzante parlare così di quello che fino a ieri era classificato tra i primi nemici pubblici dell’America.
Quale probabile conseguenza della disastrosa politica di Obama in medio-oriente, questi probabilmente si è alienato le stesse simpatie dell’Arabia Saudita, alleato storico, tanto che l’Opec – che parla saudita – nel suo ultimo rapporto di marzo 2015 si riferisce esplicitamente al prossimo sgonfiamento della bolla del gas di scisto negli stessi Usa “entro il 2015”, eventualità già anticipata due mesi fa su questo giornale.
La stessa Libia, travolta dal caos seguito alla destituzione e assassinio di Gheddafi, avvenuti con la partecipazione americana, e più recentemente alle prese con l’avanzata proprio dell’Isis, giusto ieri ha chiesto aiuto all’Italia e non agli Usa. In Israele, per rimanere nell’area medio-orientale, il nemico giurato di Obama e già primo ministroBenjamin Netanyahu, ha appena stravinto le elezioni tenute ieri stesso, come documentato su questa stessa pagina.
Dell’Asia abbiamo scritto ieri su queste colonne: con la costituzione della Banca asiatica per gli investimenti e le infrastrutture (Aiib) a guida cinese partecipata anche dai maggiori paesi europei e, a seguire, quella per lo sviluppo dei Brics, gli Usa perdono di fatto il controllo esclusivo sugli investimenti, i commerci, e soprattutto le valute, di almeno metà del mondo, travolto da una spinta multi-polare apparentemente inarrestabile. Il sogno di tutti i progressisti e campioni di diritti umani dell’occidente, insomma, è riuscito in quello che pareva impossibile o almeno assai improbabile: partì per isolare, e tornò praticamente isolato.
Se non fosse per la straripante potenza militare americana, per altro mai messa apertamente alla prova contro un nemico militarmente degno di questo nome, si potrebbe parlare di crepuscolo – oltre che di Obama – anche dell’impero americano. Se e come da Washington si reagirà a questo declino sarà interessante verificare nei prossimi mesi.
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