Il carcere di Macomer per terroristi islamisti, e la testimonianza di Mauro Pili che l'aveva visitato nel 2012

mar 21, 2015 0 comments

Il primo riferimento alla Sardegna, dopo l’assalto al Museo del Bardo di Tunisi, che ha causato la morte di 25 persone, l’ha fatto il giornalista Toni Capuozzo, esperto di terrorismo internazionale, che ha tratteggiato l’ipotesi che nella rete che lo ha organizzato ci sarebbe “un detenuto a Macomer e altri tre tunisini e le stesse voci dicono di uno del commando che parlava italiano”, riferendosi al carcere sardo di massima sicurezza, chiuso recentemente.
Un riferimento al carcere di Macomer lo fece anche Fausto Biloslavo, altro giornalista esperto di Medio Oriente, che scrisse di Raphael Gendron, un informatico francoalgerino, anche lui detenuto per lungo tempo nel carcere di Macomer, dove si racconta inneggiasse ad Allah quando i soldati italiani morivano in Afghanistan, che, una volta scarcerato, partì in Siria e nell’aprile 2013 morì combattendo contro le truppe di Assad. Gendron, considerato da molte polizie uno degli intellettuali della cellula islamica in Europa, nonostante arresto e processo in Italia, riuscì a farla franca con l’assoluzione in appello dall'accusa di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, di associazione, addestramento ed arruolamento con finalità di terrorismo internazionale.
Un'ulteriore conferma di come le carceri italiane siano diventate un ottimo centro di reclutamento per il terrorismo islamico arriva anche dal dettagliato racconto che Mauro Pili, deputato di Unidos, ha pubblicato sulla sua pagina facebook: “Vi racconto quel giorno nel carcere di Macomer tra pizzini islamici e mura bucate”, ha scritto il parlamentare sardo e correva l'anno 2012. (fm)
«Quando entro nel carcere di Macomer mi avvertono che tra di loro ci potrebbero essere anche gli autori dell’efferata strage alla stazione Atocha di Madrid. Quella dell'11 Marzo 2004 . Quasi 200 morti e oltre 2000 feriti. Entro nel penitenziario del Marghine il giorno dopo l’aggressione islamica a due agenti inermi. Mi accompagna il vice Sindaco Giovanni Biccai. Il carcere scoppia, mi dicono. Il giorno prima uno di questi signorotti tutto preghiera e salamelecchi aveva lanciato una caffettiera bollente addosso ad un agente ferendolo gravemente. Rissa e dramma sfiorati. Gente senza niente da perdere. Figuriamoci se si mettono problemi ad uccidere una guardia a colpi di caffettiera.
Avevo visitato tante carceri ma quella di Macomer mai. Ti aspetti muri di recinzione da Guantànamo e invece ti ritrovi davanti ad un carcere per minorenni. La gestione scanzonata delle carceri sarde aveva deciso di farne una struttura per terroristi islamici. Non esclusiva, ma con un braccio, quello a sinistra entrando, tutto dedicato a loro. Oscillano dai 12 ai 6. Da guardare a vista, marcamento a due . Un detenuto, almeno due agenti. Questo nel minimo codice di sicurezza.
In realtà questi poveri agenti penitenziari sono costretti a lavorare a ranghi stracciati. Uno, due massimo per tutti questi “fate bene fratelli”. I signori dal pizzetto sparato, curato come un vessillo di guerra, lo sanno bene. Se ne rendono conto. E tentato di fare i padroni, anche in carcere. Comandano loro, nell’immaginario di chi pensa di essere a casa propria. Gli basta un niente per scatenare l’inferno. E così il giorno prima questo baldo giovanotto, che mi guarda fisso per incutermi terrore, accusato di tutto e di più, con pene da scontare in mezzo mondo, ha la geniale idea di ripristinare il corano scaraventando una caffettiera addosso al malcapitato agente che resta a terra tramortito. Un secondo agente si accorge del tutto e riesce ad evitare il peggio. Tengo lo sguardo. Buongiorno, dice lui. Replico: “tu chi sei?” Mi proferisce un nome che solo per annotarlo sul taccuino avrei dovuto trascorrere la giornata lì dentro. Il “ragazzo” si fa mistico e indossa il volto del finto remissivo, di chi non ha capito perché stia ricevendo visite il giorno dopo la caffettiera show. Vado subito al nocciolo della questione: “ma per quale motivo hai aggredito l’agente con la caffettiera?” Parla italiano, stentato con le parole, eloquente con i gesti. “Ioooo??? Io non avere lanciato caffettiera. Caffettiera poggiata qui, caduta da sola. Io non sapere come caduta. Agente ferito ma io non avere niente con lui”. Le trasse sono da bandito attore: non ho fatto niente, non ho visto niente, non capisco bene la lingua. Tra me e me rifletto su questo “innocente” in carcere e mi domando cosa lo abbia portato a Macomer, nella capitale del Marghine. Oso la domanda cruciale: “ma come mai sei in carcere?” Non aspettava altro. Chiama l’agente e gli ordina di farmi entrare in cella. L’agente replica: “non è il caso”. Educato ma poco perentorio a mio parere. Ci penso io ad evitare la reiterazione dell’invito. E glielo dico a modo suo: “ascolta, dimmi quello che devi dirmi. Io fuori, tu dentro”. Non si rassegna ma capisce. Prende un faldone che nemmeno l’archivio di Stato avrebbe catalogato con tale precisione millimetrica. Del resto una buona fabbrica di balle ha bisogno di supporto cartaceo ben organizzato. Gli dico di lasciar perdere. “Non ho tempo, dimmi perché sei qui”. E lui: “lungo, molto lungo. Io arrestato Milano. Ma non avere fatto niente. Io casa amico. Mattina presto sfondato polizia. Io dormire. Sotto letto trovato mitra. Ma io non sapere di mitra sotto letto. Io pronto partire Francia. Ora arrestato”.
In realtà il “francescano” con i sandali ha sulle spalle stragi e attentati in mezzo mondo e la morsa di Pisanu, ministro dell’Interno, lo scova e lo schiaffa in carcere prima di un nuovo attentato a Milano. Parla e cerca documenti. Non trova quello che mi deve dare. Chiede all’agente di uscire dalla cella per farselo dare dal suo amico francese convertito all’Islam. Distanza quattro celle. I due non si possono parlare. Ma stranamente dispongono di documenti a mezzadria. L’agente è perentorio, questa volta: “non puoi uscire”. Gli dico che non importa. Sta diventando pedante, lo saluto e vado avanti. Arrivo sino al francese. Scheggia islamica in salsa napoleonica. Faccia angelica, costernato e con il pensiero rivolto a figli e mogli che non sa dove siano. Italiano strascicato dalla erre moscia. Parla subito lui: “mio amico aver detto, che devo dare a te documento. Ecco, noi innocenti, questo documento spiega tutto”.
Prendo un foglio fitto fitto di parole, opere e omissioni di questa congrega paramilitare nel carcere di Macomer e vado via. Da quel momento la mia domanda è solo una: ma come hanno fatto a comunicare da una cella ad un’altra i due? Come ha fatto il primo a dirgli di darmi il documento? Ma non è vietato che parlino tra di loro? Ma poi due celle a distanza di 20 metri, come hanno fatto? In realtà quel carcere, mi spiegano gli agenti, è un colabrodo. Bucato. Il primo islamico si è affacciato alla finestrina, ha comunicato con la finestra affianco, sino ad arrivare all’ultima destinazione. La Guantànamo sarda per agenti islamici in trasferta sarda era una passeggiata.
E quando in queste ore Toni Capuozzo lascia intendere che l’attentato di Tunisi sia maturato nel carcere di Macomer non mi stupisco. Quando andai via da quella struttura, tre anni fa, dissi: allontanate subito questi terroristi dalla Sardegna. Non sono in carcere ma in vacanza. E progettare qualsiasi cosa per loro era fin troppo facile, per un carcere senza muri, progettato per detenuti comuni e riservato poi a terroristi della peggior specie. Misteri tutti italiani.»

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