Di Francesco Santoianni
Tutti le campagne mediatiche per avere successo devono contenere almeno due elementi: una storytelling, – e cioè un episodio di grande impatto emotivo che suggerisce un corpus di credenze – e l’autorevolezza di chi questo episodio narra (che, solitamente dissuade il pubblico dal verificarne la veridicità). Ad esempio, la storytelling dei “neonati strappati alle incubatrici nel Kuwait dai soldati iracheni” raccontata da Nayirah – una infermiera del Kuwait – fu considerata da molti attendibile non già dalla dichiarazione di questa anonima infermiera (che poi si scoprì essere la figlia di Saud Nasir al-Sabah, ambasciatore del Kuwait negli USA, e istruita dall’agenzia di pubbliche relazioni Hill & Knowlton,) ma dalla circostanza che nessuno della Commissione senatoriale USA (davanti alla quale fu pronunciata) osò metterla in dubbio. Oggi, generalmente, la veridicità della notizia è garantita dalla televisione e dai suoi ineffabili corrispondenti di guerra che, in qualche caso, dopo aver diffuso evidentissimi falsi – ad esempio, le “Fosse comuni di Gheddafi” – quando questi falsi sono universalmente riconosciuti tali, per garantirsi una verginità, dichiarano di essere stati ingannati.
Cento anni fa l’autorevolezza della notizia fu garantita dal ponderoso Rapporto Byrce, (qui è possibile leggere il documento in originale) – redatto, nel dicembre 1914, dal Comitato per indagare le voci sulle atrocità in Belgio istituito dal primo ministro inglese Herbert Asquith e diretto dal visconte Lord James Bryce – che riportante mostruose atrocità commesse dai soldati tedeschi in Belgio (persone stuprate, crocifisse, impalate, accecate… donne sgozzate e/o con mammelle amputate… e, soprattutto, bambini con mani mozzate) divenne, in poche settimane, un best seller.
Subito tradotto in 30 lingue dal governo inglese, il Rapporto Bryce, (anche grazie a veementi promotori come lo scrittore Arthur Conan Doyle, il creatore di Sherlock Holmes) conobbe varie versioni. In Italia, ad esempio, sia il Corriere della sera sia Il Messaggero ne stamparono una edizione popolare arricchita con varie illustrazioni. Da qui il libro di Achille De Marco Sangue belga che descriveva, con una fantasia davvero perversa, tutta una serie di mutilazioni tra cui “bimbe mutilate dei piedi e obbligate a correre sui moncherini per il passatempo spirituale della soldataglia tedesca”. Curiosamente, questo episodio non era riportato nel Rapporto Bryce – che il De Marco assicurava essere la fonte del suo libro – ma fu comunque ampiamente ripreso dalle successive “edizioni popolari” del Rapporto.
Innumerevoli sono state poi le raffigurazioni attestanti le atrocità riportate nel Rapporto. Soprattutto cartoline illustrate a colori; le più famose quelle commissionate dallo Stato maggiore francese al disegnatore Francisque Poulbot: si stima che la serie più famosa delle sue cartoline sia stata stampata in un milione di copie.
"Attendibilità" del Rapporto Bryce
Finita la prima guerra mondiale, i documenti originali delle deposizioni dei presunti testimoni belgi (tutti anonimi) che costituivano il Rapporto Bryce rimasero secretati. Non fu questa l’unica stranezza che insospettì gli storici. Verosimilmente, c’era anche la curiosità di sapere come avessero fatto i membri della commissione di indagine coordinata da Byrce a gironzolare in un Belgio occupato dall’esercito tedesco e a incontrare così tante persone disposte (se pur anonimamente) a testimoniare. Fu per questo che alcuni ricercatori – tra cui Arthur Ponsonby e Fernand van Langenhove – ripercorsero le aree del Belgio (distretto di Liegi, Valle della Meuse, Aarschot,, Mechelen, Louvain…) menzionate nel Rapporto come teatro degli efferati crimini commessi dai tedeschi. Ma non trovarono alcuna conferma di questi supposti episodi. Analogo risultato quando indagarono su un famoso (cinque prime pagine sul Times) evento riportato nel Rapporto Byrce: tredici bambini del villaggio di Sempst violentati e poi finiti con le baionette. Poi passarono in esame l’evento clou: i bambini con le mani mozzate. Da cosa era nata questa leggenda? Sostanzialmente, da due rumors. Nel primo, un anonimo sacerdote del distretto di Termonde, in una predica, avrebbe raccontato di un bambino che lo aveva avvicinato per chiedergli quale preghiera innalzare a Gesù per fargli crescere le mani mozzate dai Tedeschi. Nel secondo, che sarebbe avvenuto in un ospedale del nord del Belgio, una bambina di sei anni con le mani mozzate avrebbe composto questa straziante preghiera (riportata nel periodico Semaine religieuse di l'Ille-et-Vilaine): “Signore non ho più le mani. Un crudele soldato tedesco me le ha prese, dicendo che i bambini belgi e francesi non hanno diritto ad avere le mani; che questo diritto lo hanno solo i bambini dei tedeschi. E me le ha tagliate. E mi ha fatto molto male. Ma il soldato rideva e diceva che i bambini che non sono tedeschi non sanno soffrire. Da quel giorno, Signore, la mamma è diventata pazza ed io sono sola. Il babbo è stato portato via dai soldati tedeschi il primo giorno di guerra. Non ha mai scritto. Certamente, lo avranno fucilato…”. Le puntigliose ricerche di van Langenhove e di altri non trovarono alcuna conferma di questi episodi. Analogo risultato ottenuto da Francesco Saverio Nitti, già ministro durante la guerra e in seguito, presidente del Consiglio: “Abbiamo sentito raccontare la storia dei piccoli infanti belgi ai quali gli unni avevano mozzato le mani. Dopo la guerra, un ricco americano, scosso dalla propaganda francese, inviò in Belgio un emissario per provvedere al mantenimento dei bambini cui erano state tagliate le povere manine. Non riuscì ad incontrarne nemmeno uno. Mister Lloyd George e io stesso, quando ero capo del governo italiano, abbiamo fatto eseguire delle minuziose ricerche per verificare la veridicità di queste accuse, nelle quali, in certi casi, si specificavano nomi e luoghi. Fu rilevato che tutti i casi oggetto delle nostre ricerche, erano stati inventati.”
L’inattendibilità del Rapporto Byrce non significa, certo, che non vi furono esecuzioni sommarie, o altri crimini, commessi dalle truppe di occupazione tedesche. Esecuzioni dettate anche dalla psicosi imperante tra le truppe tedesche che vedevano nelle numerose feritoie che costellavano i muri delle case belghe (in realtà “fori in muratura” destinati a fissare le impalcature per gli imbianchini delle facciate) una postazione per cecchini. Psicosi, tra l’altro, istituzionalizzata da autorevoli opinionisti tedeschi come il professore universitario B. Händecke che sul quotidiano Nationale Rundschau spiegava che la crudeltà belga era già iscritta nell’arte fiamminga.
I falsi di guerra
La leggenda dei bambini con le mani mozzate, oltre che per il suo enorme impatto nell’opinione pubblica (In Italia, uno dei pochissimi studiosi che ne denunciò la falsità fu Benedetto Croce) merita di essere analizzata perché si basa su un aspetto che caratterizzerà fino ai nostri giorni i falsi di guerra: l’illogicità del gesto.
L’occupazione tedesca del Belgio era finalizzata all’invasione della Francia, non certo all’attuazione di una qualche pulizia etnica, per la quale, cioè, bisogna terrorizzare la popolazione autoctona per costringerla a fuggire. Corollario di questa strategia era l’esigenza per la Germania di garantirsi un Belgio relativamente tranquillo dopo che – già nei primi giorni dell’invasione – era stata neutralizzata gran parte della resistenza. In questo contesto – come fece notare van Langenhove – sarebbe stato del tutto illogico per la Germania non solo organizzare (secondo il Financial Times veniva direttamente dal Kaiser la direttiva di torturare i bambini, specificando – tra l’altro – quali torture dovessero essere eseguite) ma anche permettere ufficialmente il compiersi di tali gratuite atrocità contro la fascia più inerme della popolazione. In altri termini “…(di fronte a queste atrocità)… cosa altro avrebbero fatto gli abitanti dei paesini teatro di tali infamie se non avventarsi, magari con qualche coltello da cucina, sul primo tedesco che passava?” Se questo si fosse verificato, la Germania si sarebbe trovata ad affrontare una resistenza immensamente più feroce di quella che caratterizzo l’invasione del Belgio, durante la guerra franco-prussiana, nel 1870.
Nonostante ciò, innumerevoli, illogiche, menzogne di guerra (basti pensare ai cecchini di Assad che sparano sulle donne incinte), anche oggi, vengono prese per buone da gran parte dell’opinione pubblica. Come è possibile? Tra gli studiosi che si occuparono di questo fenomeno, un posto di rilievo spetta, certamente allo storico Marc Bloch che, nel 1921, pubblicò Riflessioni di uno storico sulle false notizie della guerra un testo breve ma ancora oggi illuminante per capire su quali meccanismi i creatori di falsi di guerra basino il loro agire. “Solo grandi stati d’animo collettivi hanno il potere di trasformare in leggenda una cattiva percezione. – dichiara Bloch – Una falsa notizia nasce sempre da rappresentazioni collettive che preesistono alla sua nascita; la sua messa in moto ha luogo soltanto perché le immaginazioni sono già preparate e in silenzioso fermento.”
Una menzogna di guerra, quindi , serve sostanzialmente a cementare tutto un corpus di credenze già imposte all’opinione pubblica e a trasformare in paranoia il diffuso senso di insicurezza. Paranoia che, quindi, impone di fermare il nemico di turno prima che possa colpire anche l’inerme consumatore della menzogna (oggi, solitamente, un telespettatore). E bisogna agire subito, perché il nemico dispone, nel paese del consumatore, di una quinta colonna (pacifisti, disfattisti, comunità etnico- religiose…) o è dotato di imperscrutabili armi capaci di seminare ovunque distruzione.
Agli albori della Prima guerra mondiale la costruzione di un nemico capace delle più turpi efferatezze, che, se non lo si fosse fermato in tempo sarebbero dilagate dovunque, fu affidata in Italia (fino ai primi mesi del 1915 alleata dell’Impero austro-ungarico) ad una torma di giornalisti i quali furono letteralmente comprati da emissari del governo francese o inglese e/o da gruppi industriali interessati alle commesse militari. E così, in pochi mesi, fu imbastita una gigantesca campagna mediatica – imperniata sullo “stupro del piccolo e pacifico Belgio” – fatta propria da non pochi intellettuali e accompagnata da innumerevoli manifestazioni, culminate nel Maggio radioso, che chiedevano l’entrata in guerra.
Ironia della sorte, anche in quei giorni, “il Belgio” continuava a mozzare le mani ai bambini. Nel Congo, fino al 1909 proprietà privata di Leopoldo II re del Belgio. Per costringere le popolazioni a raccogliere nelle foreste il Caucciù e consegnarlo agli agenti della Société Générale de Belgique. Un abominio, accompagnato dallo sterminio – in 23 anni – di circa 9 milioni di congolesi, che aspetta ancora di essere ricordato in qualche museo o Giornata della Memoria.
Fonte:http://www.sibialiria.org/wordpress/?p=2884http://www.centoannidiguerre.org/wordpress/?page_id=765
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