Di Benedetta Scotti
“La gente pensa che le istituzioni europee siano la Commissione, il Consiglio e il Parlamento. Ma dietro tutto questo si nasconde ben altro”. A parlare è un lobbista in una scena di “The Brussels Business”, film-documentario girato da F. Moser e M. Lietaert sull’incredibile mondo delle lobby che ruota intorno a Bruxelles, cuore della tecnocrazia europea.
Un esercito di quindicimila professionisti (anche se è impossibile stabilire una cifra precisa data la mancanza di trasparenza) per un giro d’affari miliardario, in grado di influenzare, secondo le stime del Corporate Europe Observatory, il 75% delle leggi europee[1]. Considerando che le direttive europee influiscono sua una considerevole percentuale delle leggi nazionali, con punte intorno all’80% per settori come agricoltura e mercati finanziari, si possono trarre conclusioni senza troppi giri di parole. Con le loro capacità relazionali e la loro presenza capillare nei luoghi che contano, i gruppi di pressione, rappresentanti in gran parte interessi privati[2], sono in grado di dirigere i processi decisionali i cui effetti ricadono direttamente su 500 milioni di persone.
Dall’implementazione del mercato unico sotto l’egida di Delors fino all’attuale TTIP, il trattato di libero scambio con gli USA in attesa di finalizzazione, i signori del soft-power hanno sempre giocato un ruolo decisivo. Target principale è la Commissione Europea, da cui partono tutte le proposte di legge, anche se negli ultimi anni la pressione ha riguardato in maniera crescente anche il Parlamento Europeo che l’ex commissaria Mariann Fischer Boel ha definito, senza mezzi termini, “paradiso delle lobby”.
La presenza indisturbata di gruppi lobbistici sarebbe giustificata dalle loro competenze tecniche nei vari settori in merito ai quali le istituzioni europee si trovano a legiferare. Essi rimedierebbero, infatti, alla carenza di conoscenze specifiche di parlamentari e commissari operando, ad esempio, tramite gli “advisory groups”, costituiti dai portavoce di vari enti, aziende, banche e associazioni. Questo sistema di confronto con la “società civile” facilita, in realtà , la proposta di leggi che, incontrando già il favore degli interessi pubblici e privati, evitano la politicizzazione in seno al Consiglio che, con i suoi complicati meccanismi di voti, rischierebbe di ostacolarne l’iter.
Fare lobbying è solo una questione di network. “Una volta che hai un buon carnet di nomi ti basta contattare un centinaio di persone veramente importanti” afferma un lobbista[3] secondo il quale tale rete relazionale è vitale per le stesse istituzioni europee. La Commissione Europea ha infatti bisogno delle informazioni di gruppi quali l’European Service Forum perché, continua il medesimo, è nell’interesse delle società private che va a negoziare per l’apertura del mercato, unico ideale al quale un provetto lobbista risponde. Ma, anche riconoscendo il lobbismo come connaturato ai processi decisionali di Bruxelles, l’ingenuo cittadino europeo può almeno conoscere chi si cela dietro le leggi con le quali ha a che fare ogni giorno?
Il problema della mancanza di trasparenza è stato sollevato fin dal 2009, quando il commissario estone Siim Kallas propose di istituire un registro dei gruppi di pressione operanti a Bruxelles. Il massimo risultato ottenuto finora è stata l’approvazione di un registro ad iscrizione volontaria, nonostante si parli di renderla obbligatoria entro i prossimi due anni. Vi sono, infatti, assenze più che sospette. Nel settore finanziario, ad esempio, mancano all’appello UBS e Goldman Sachs che risulta, però, tra i finanziatori del potente think tank Bruegel (fare lobbying è disdicevole, investire in un think tank suona decisamente più innocuo). Per non parlare della qualità delle informazioni disponibili: ciascun ente fornisce, oltre ad una stima auto-redatta della propria spesa lobbistica, un elenco dei proprio temi d’interesse. Risultato: consultando il registro emerge che meno di cinquanta tra tutti gli enti iscritti hanno fatto sentire la loro voce in merito al già citato TTIP. Difficile credere che un trattato di tale portata interessi a Citigroup e IBM, tra le poche statunitensi rappresentate, e non, ad esempio, alla potentissima Camera di Commercio Americana. Insomma, oltre al danno d’istituzioni altamente tecnocratiche e falsamente democratiche, anche la beffa della finta trasparenza.
[1] Fonte: The Guardian e Corporate European Observatory
[2] I due terzi secondo il Corporate European Observatory.
[3] Intervistato in The Brussels Business.
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