Di Monica Amendola
La storia della guarigione di Michael Retsky, oggi professore alla Harvard School of Public Health lo insegna: è possibile curare il cancro con dei metodi alternativi rispetto al tradizionale ciclo di chemioterapie. Magari con una terapia più lunga, ma sicuramente più economica di quella utilizzata dagli oncologi. I farmaci che servono a questo, però, sono troppo poco costosi, e il ritorno economico delle case farmaceutiche che li producono sarebbe minimo, o comunque di molto inferiore al guadagno dato dalle chemioterapie standard. Per questo, la Big Pharma, che comprende le maggiori dieci aziende farmaceutiche del mondo, preferisce investire su cure più specifiche e costose.
Nel 1995 a Retsky fu diagnosticato un tumore al colon in stadio avanzato e molto diffuso. L’allora ricercatore, laureato in fisica, ma da dieci anni dedito allo studio del cancro, analizzò le probabilità di guarigione: il venti percento, destinato a salire al cinquanta con la chemioterapia. Poi, solo la speranza di guarigione. Con le sue conoscenze, tuttavia, Retsky sapeva dell’utilizzo di terapie alternative nella cura del cancro del dottor William Hrushesky, e lo contattò. La cura di Retsky fu più lunga di un normale percorso oncologico, due anni e mezzo invece di sei mesi, ma il dosaggio della medicina più basso e meno concentrato gli evitò i normali effetti collaterali dovuti alle chemioterapie, molto più brutali. E gli permise di guarire dal suo tumore. Da allora, Retsky si dedica alla ricerca sui metodi alternativi e più a basso costo per curare il cancro, che nel solo 2013, negli Stati Uniti, ha causato 580.000 morti, calcolate dalla American Cancer Society.
Le cure alternative sperimentate da Retsky e Hrushesky hanno però un nemico principale: il problema del ritorno economico delle case farmaceutiche. Secondo il Tufts Center for the Study of Drug Development, infatti, la sperimentazione di un farmaco antitumorale costa più di un miliardo di dollari, cosa che lo porta a essere venduto per altrettanti miliardi. I dieci farmaci più usati tra questi sono tutti stati sperimentati da aziende parte della Big Pharma, e, stando ai dati della Campbell Alliance, società di consulenza sanitaria americana, negli ultimi dieci anni la vendita ognuno di loro ha superato il miliardo di dollari. Ultimamente, poi, la ricerca si è concentrata sulle cosiddette terapie mirate, che attaccano il tumore direttamente nella zona colpita. I farmaci utilizzati in questo tipo di terapie sono molto costosi perché richiedono una complessa sperimentazione molecolare e genetica; ma, proprio per questo, sono anche molto più redditizi.
Un esempio è dato dal Glivec dell’azienda Novartis, utilizzato per il trattamento di alcuni tipi di leucemia: ogni mese, questo farmaco richiede una spesa di duemilaseicento dollari. Per ottenerne il diritto di sfruttamento in esclusiva, la Novartis è stata impegnata negli ultimi sette anni in una controversia legale con l’azienda farmaceutica indiana Cipla, produttrice di farmaci generici con funzione equivalente, seppure a prezzo molto inferiore perché destinati alle popolazioni in via di sviluppo: centosettantacinque dollari mensili contro i duemilaseicento richiesti dalla Novartis. Alla fine della battaglia legale, il primo aprile 2013 la Corte Suprema di Nuova Delhi ha espresso la sentenza definitiva, rifiutando alla multinazionale svizzera la richiesta di brevetto per lo sfruttamento in esclusiva del Glivec. L’idea di base è quella di salvaguardare il diritto alla salute della popolazione, che ha un’incidenza di morte da cancro di molto superiore a quella statunitense: secondo l’Oms, pari a sette milioni di persone previste per il 2015 contro i cinque milioni del 2005.
Eppure, i rimedi alternativi ci sono: Retsky e Hrushesky, infatti, collaborano, dal 2010, con l’anestesista belga Patrice Forget, autore di uno studio sugli effetti benefici dovuti di farmaci antinfiammatori non steroidei (i cosiddetti Fans) prima dell’operazione di rimozione del tumore: le sue statistiche contavano una percentuale di recidiva di molto inferiore nei pazienti cui era stato somministrato il Ketorolac, noto sul commercio come Toradol, farmaco a buon mercato perché di proprietà di nessuna casa farmaceutica.
Mossa da un’analoga volontà di trovare cure alternative a basso prezzo, anche la Gran Bretagna ha messo in atto, dal 2013, una sperimentazione per provare l’efficacia dell’aspirina assunta dopo il trattamento curativo standard. «Un farmaco che possa essere brevettato otterrebbe subito un trial randomizzato, mentre l’aspirina, che ha proprietà sorprendenti, resta inesplorata perché si tratta di un rimedio cardiovascolare da pochi centesimi», ha affermato Michelle Holmes, professore associato di medicina presso la Harvard Medical School, che sta cercando di portare una sperimentazione analoga anche in America.
Ci sono ancora gli studi sperimentati nella struttura non profit Global Cures, di Vikas Sukhtame, docente della Harvard School of Medicine, e sua moglie Vidula. I due coniugi cercano terapie alternative a quelle standard, molto più economiche: sul loro programma si leggono progetti di utilizzo dei semi dell’uva, dell’aspirina, e del Ketorolac. Farmaci da loro definiti «orfani finanziari», perché non finanziati dal National Institute of Health degli Stati Uniti, e che i medici sono restii a somministrare se non sperimentati su larga scala.
Insomma, i rimedi alternativi ci sono, ma i servizi sanitari dei vari stati non sembrano interessati a finanziarli. Anche nella ricerca sul cancro, al primo posto sembra esserci il business, più che la salute.
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