L’inchiesta di Dario Clemente su Tanamerica.it è di quelle che colpiscono forte, come un pugno allo stomaco, e lasciano un profondo amaro in bocca. Le righe che seguono provano gli intrecci segreti tra Mujica, il presidente dell’Uruguay, Soros, il finanziere artefice di alcune tra le più grandi malefatte americane, e Rockfeller, il miliardario statunitense fondatore del Bilderberg. Ecco tutti i dettagli.
Di Dario Clemente
L’immagine del presidente uruguayano Pepe Mujica in Italia si divide tra due opposte e monolitiche narrazioni. Viene attaccato, da destra, con il tipico argomento riservato per anni a Chavez: populista, utopista romantico, rottame di una sinistra ormai tramontata. Fino al killeraggio mediatico dallo scarso spessore analitico e dal molto livore ideologico . Per la sinistra è invece una specie di santo socialista.
Ex-guerrigliero Tupamaro, lider pacato di un piccolo paese di 3 milioni scarsi di abitanti, la democrazia più resistente del Sudamerica, candidato al nobel per la pace dal quotidiano inglese “The Guardian”. A prima vista il meno attaccabile dei presidenti “progressisti” del continente, oltretutto dedito al pauperismo e quindi facile sponda di varie argomentazioni “anti-casta”. Entrambe le “fazioni” si esercitano spesso nel gioco della spettacolarizzazione dei suoi atti, in un senso o nell’altro (a proposito, la contraffazione di notizie non è prerogativa unica del “nemiko imperialista”, come dimostra il falso diventato virale su internet qualche settimana fa di Mujica che faceva la coda in un ospedale pubblico).
È forse più interessante perciò prendere in considerazione (stando a nostra volta attenti a “non prendere una parte per il tutto”, “buttare il bambino con l’acqua sporca” ecc ecc) le critiche al suo operato che ci vengono dal continente sudamericano, tendenzialmente più imparziali e documentate. E che in questo caso prendono di mira la recente liberalizzazione del consumo e autoproduzione di marijuana in Uruguay.
Un aspetto importantissimo dell’attività dei movimenti sociali sudamericani e infatti il lavoro di ricerca e di opposizione alle attività nel continente della tristemente nota multinazionale statunitense Monsanto. Mentre in Argentina, dove dal 1996 è permessa la coltivazione di soia transgenica, di cui è prima esportatrice mondiale, è in discussione la nuova “Ley de semillas” che garantirebbe a diverse multinazionali un maggior controllo sulle licenze di semi a discapito dei piccoli coltivatori, l’ombra minacciosa di Monsanto si allunga anche sulla recente legge sulla marijuana approvata in Uruguay.
A fine 2013 il paese sudamericano era stato infatti il primo al mondo a legalizzare la produzione e consumo di marijuana, con l’intento dichiarato di mettere fine al narcotraffico e al consumo di erba di pessima qualità proveniente dal Paraguay. Oltre a potersi costituire in cooperative di consumo e coltivare fino a 6 piante per persona, gli Uruguyani iscritti ad uno speciale registro potranno da fine 2014 comprare in farmacia marjuana prodotta da aziende private e commercializzata dallo Stato , ad un prezzo del 30% inferiore al mercato illegale, meno di un dollaro a grammo.
Il problema verterebbe però proprio sui soggetti che verranno autorizzati alla produzione destinata alle farmacie. I primi clamori erano stati suscitati da un incontro fra Mujica, Rockefeller e Soros a New York lo scorso settembre , proprio per parlare del processo di approvazione della legge, la cui campagna promozionale è stata finanziata al 60% dalla “Open Society Foundation” di Soros.
Il multimilionario statunitense, additato dalle sinistre di mezzo mondo come appendice della strategia della “destabilizzazione” dei governi invisi a Washington attraverso le sue innumerevoli associazioni, ha dichiarato che “l’Uruguay è un esperimento” nell’ambito della sua pluriennale campagna contro il narcotraffico nel continente.
Il fatto è che Soros è anche un importante azionista di Monsanto e non pochi hanno collegato la presenza della multinazionale nella produzione nazionale di soia e mais, nonché il suo ingresso nel paese nel 2013 con una nuova tipologia di soia transgenica, al nuovo business della marijuana.
Il timore, insomma, è che l’Uruguay sia un pilot-test su larga scala per una sperimentazione sui semi di marijuana che Monsanto starebbe conducendo da anni, seppur indirettamente, via Olanda e Colombia.
Oltretutto Mujica intenderebbe sviluppare un codice genetico unico per la qualità di marijuana venduta dallo Stato, con lo scopo di differenziarla da quella proveniente dal narcotraffico. Un brevetto quindi, che potrebbe facilmente essere una varietà sviluppata da Monsanto, non nuova a distribuire semi gratis per poi in seguito rivendicarne la proprietà , e che potrebbe garantire una pianta “resistente” e adatta a coltivazioni estensive.
Sia il governo Uruguayano che Monsanto negano questo scenario. Anzi, la corporation statunitense arriva ad escludere completamente sia un suo interesse allo sviluppo di marijuana o.g.m. nel mondo sia un qualsiasi collegamento con Soros. Il quale sarebbe invece implicato nella vicenda anche come azionista della azienda di produzione di biocombustibile “America del Sur Adecoagro”.
E non è finita qui perché l’interesse nordamericano alla sperimentazione uruguayana potrebbe estendersi ad altri imprenditori, intenzionati ad una commercializzazione della sua marijuana negli Stati Uniti (Colorado e Washington) e Canada. L’Uruguay sarebbe infatti ormai più “affidabile” per l’approvvigionamento di altri paesi ( come il Messico ad esempio), anche se Mujica ha finora escluso che vi sarà una produzione per l’esportazione.
La produzione di Marijuana o.g.m. su larga scala aprirebbe inevitabilmente a tutte le problematiche connesse alle coltivazioni transgeniche presenti nel continente: monopolio dei brevetti da parte delle grandi multinazionali, abuso di pesticidi altamente intossicanti per la popolazione, distruzione della biodiversità e della produzione contadina, nonché ovviamente delle implicazioni rispetto alla qualità del prodotto. Un ulteriore penetrazione di Monsanto renderebbe inoltre il paese ancora più dipendente dagli interessi del capitale “sojero” nazionale e straniero, avvezzo a tentativi di destabilizzazione politico-militari come dimostra il non lontano caso di colpo di stato in Paraguay nel 2012.
AGGIORNAMENTO
Nel frattempo la legge sta subendo un ritardo nella applicazione dovuto alla scarsa legislazione in materia presente a livello internazionale. L’erba destinata alle farmacie non è ancora stata piantata così come l’appalto per scegliere le aziende fornitrici non è stato ancora svolto. Infobae America riporta un sondaggio per cui il 64% degli uruguayani sarebbe contrario all’ applicazione della legge e il 62% favorevole a una sua derogazione parziale. Di sicuro c’è che se la coalizione oficialista di Mujica non risulterà vincente alle elezioni di ottobre (per ora si assesta sul 40% dei consensi) l’opposizione procederà a derogarla, almeno nella parte che avoca la coltivazione allo stato, lasciando in piedi solo la possibilità di auto-produrla.
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