Di Francesco Benedetti
Dietro all’ aggressione Israeliana a Gaza non c’è soltanto l’incompatibilità tra le ambizioni espansioniste israeliane e la resistenza palestinese. La posta in gioco nei conflitti che infiammano questa martoriata regione è anche e soprattutto l’accesso ad alcune risorse “strategiche” delle quali i media occidentali spesso e volentieri non parlano. La prima, come abbiamo già riportato in un altro articolo, è l’acqua. La seconda è forse anche più importante in termini geopolitici. Si tratta dei giganteschi giagimenti di gas naturale presenti al largo delle coste palestinesi. Sulle quali Israele intende mettere le mani ad ogni costo.
Il più grandi di questi giacimenti è il Leviathan, che assieme al Tamar (entrambi localizzati nel mediterraneo orientale) potrebbero fornire energia a basso costo per almeno un secolo. Questi sono contesi tra Israele e Libano, e non è escluso che le passate aggressioni organizzate da Tal Aviv, siano state motivate principalmente dalla volontà di porre in essere un’egemonia di fatto sul loro sfruttamento. Poi ci sono due giacimenti più piccoli, chiamati Marine 1 e Marine 2, che sono localizzati a trentasei chilometri al largo di Gaza. Due “forzieri” che il 2 Giugno scorso i palestinesi avevano provato ad aprire, intavolando le trattative per autorizzarne lo sfruttamento alla russa Gazprom. Dopo appena dieci giorni da allora è avvenuto il rapimento e l’omicidio dei tre studenti ebrei che ufficialmente ha scatenato la rappresaglia israeliana.
Presentata così sembrerebbe una strampalata teoria complottista. Ma se torniamo indietro di quindici anni, scopriamo che nel 1999 l’Autorità Nazionale Palestinese aveva già firmato un primo accordo per lo sfruttamento dei giacimenti, questa volta con la British Gas Goup e con un’azienda collegata, la CCIC di proprietà libanese. Un accordo al limite del colonialista, che garantiva per 25 anni il 90% degli introiti ai privati e solo il 10% allo Stato Palestinese. Un’intesa poco favorevole alla ANP, ma sicuramente interessante s
ia per i grossi introiti fiscali che avrebbe garantito al nascente Stato di Palestina, sia perchè i primi acquirenti di quel gas sarebbero stati proprio gli Israeliani, in piena crisi energetica. Finalmente una leva di pressione efficace con la quale Ramallah avrebbe potuto riequilibrare il suo rapporto con Tel Aviv.
Due anni dopo, nel 2001, il premier israeliano Ariel Sharon contestò la sovranità palestinese su quei giacimenti, dichiarando alla stampa “Non accetteremo mai di acquistare il gas dalla Palestina“. Iniziò a quel punto un braccio di ferro diplomatico, con Israele che si rifiutava di importare il gas e il governo inglese di Tony Blair che gli dava ragione, facendo pressioni sulla British Gas perchè rinunciasse al progetto. Dopo un tira e molla che sembra non finire mai, nel 2007 Israele acconsentì ad acquistare il gas palestinese, purchè i proventi non andassero ai palestinesi stessi, Ovvero “scavalcò” lo Stato sovrano che li deteneva e chiese alla British Gas di stracciare il contratto e pompare il gas direttamente per Tel Aviv. Una sorta di “annessione” senza dichiarazione di guerra. Le trattative proseguirono fino a dicembre del 2008, quando guarda caso Israele lanciò l’operazione “Piombo Fuso”. Sarà stata una coincidenza, forse.
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