« Non c’era la morte allora, né l’immortalità . Non c’era differenza tra la notte e il giorno. Respirava, ma non c’era aria, per un suo potere, soltanto Quello, da solo. Oltre a Quello nulla esisteva »
(Ṛgveda, X,129,2)
Di Giovanni Balducci
Il tema fondamentale della visione tradizionale è la ricerca dell’Assoluto, del Principio incondizionato che sta oltre ogni determinazione e qualità , ma da cui tutto promana, e che di tutto è il fondamento. Tale ricerca è intesa sia come conoscenza teoretica dell’Assoluto, che come finalizzata ad un’esperienza di liberazione (moksa). Nelle Upanisad è scritto che la Realtà ultima è composta da un principio Coscienza che è il Brahman, l’Assoluto immanifesto.
Nella cultura vedica si dice che tale Principio sia in tutte le cose, ma che non possa essere toccato in qualsiasi modo da qualcosa che sia altro da lui, in quanto tutto ciò che non è lui ha esistenza relativa, illusoria. Egli è imperituro, immutabile, senza forma, pieno di Beatitudine, senza azione (wou-wei), omnicomprensivo, senza volizione determinata a singole circostanze. Quale realtà suprema, il Brahman trascende ogni aspetto fenomenico, eppure è alla base di ogni realtà creata: esso tutto include eppure è al di là del tutto.
Tale stato superiore dell’ “essere” è contrapposto a quello inferiore del “divenire”, che trae origine da esso. In tutte le civiltà tradizionali tale conoscenza funse come asse polare intorno al quale il resto era ordinato. La storia di Mosè salvato dalle acque ci suggerisce un’idea in merito, le acque rappresentando qui il divenire, ovvero la corrente caotica del pensiero, cui l’uomo può sfuggire, sciogliendo l’ordinaria identificazione con essa, ritrovando così il suo centro.
Tra il Principio cosciente universale e lo spirito di ogni uomo (atman) c’è uno stretto legame, anzi lo spirito è lo stesso Brahman, e null’altro. Dall’ignoranza (avidyâ) di questa identità deriva il dolore umano che può essere superato soltanto mediante la retta conoscenza del Brahman. L’identità tra atman e Brahman è enunciata nella celebre frase della Chandogya Upanisad: “Tat tvam Asi” (Tu sei Quello). Il Sé individuale è identico al Sé universale escludendo così ogni dualismo.“Come l’aria racchiusa nella brocca non è una trasformazione, né una partedell’aria esterna ad essa, così il Sé individuale non è né una trasformazione né una parte del Sé universale”(Mandukya Upanisad, III, 7).
Ma il velo di maya (il mondo fenomenico) porta ad una fallace rappresentazione dell’atman nella buddhi (intelletto superiore) immaginandolo quale jiva (anima individuale) sperimentatore. Ma l’atman è al di là dei jiva, esso è della natura della pura Coscienza e Beatitudine e conferisce alle individualità una natura intelligente che anima il mondo della materia piuttosto che esserne un prodotto. “L’atman non è soggetto alla nascita, alla decrepitezza, alla malattia ed alla morte. Esso è Realtà della più intima natura umana e d’ogni altro essere e non nasce né viene distrutto quando il corpo viene ucciso” (Sarva-Vedanta-Siddhanta-Sarasangraha: s. 459). Pur essendo fuori dal moto, l’atman è il governatore della persona umana, rappresentandone dunque il “motore immobile”.
È evidente quanto questa visione cozzi con quella della scienza occidentale che, seguendo il paradigma meccanicistico, considera reale solo l’universo materiale, e la coscienza come un epifenomeno del cervello. C’è da tener conto però di come la coscienza dell’uomo (e quindi anche la coscienza dello studioso del cervello) sia radicalmente diversa da quella “cosa” che studia: essendo l’orizzonte entro il quale si mostrano tutte le cose. Dunque l’essere-uomo è radicalmente diverso dall’essere-cosa.
Tale visione sarà propria nel secolo scorso anche della speculazione filosofica di Martin Heidegger (non a caso in Oriente Heidegger è il filosofo europeo più tradotto), per cui l’uomo è “Esser-ci” nel senso che si trova “gettato” nel mondo (pur avendo i mezzi per trascendere la sua condizione, essendo “progetto”). L’uomo è “l’essere-nel-mondo” (“in-der-Welt-sein”, in tedesco). Stando a tali premesse non sussiste nemmeno il problema gnoseologico venuto fuori con Cartesio e che ha generato l’idealismo filosofico, essendo l’uomo strutturalmente aperto al mondo (non vi è un interno – la coscienza – ed un esterno cioè il mondo, in ultimo non vi è un soggetto senza il mondo).
Ben si prestano all’analisi heideggeriana i versi del D’Annunzio nel componimento L’Annunzio: “La bellezza del mondo sopita si ridesta. Il mio canto (del poeta) vi chiama a una divina festa.” E poi: “Io vi dirò quel che da voi s’attende.” E ancora: “la deità in voi splende”. In seguito: “E il dio(Pan) mi disse: “O tu che canti, io son l’Eterna Fonte. Canta le mie laudi eterne.” E il poeta: “Parvemi ch’io morissi e ch’io rinascessi. O Morte, o Vita, o Eternità ! E dissi: “Canterò, Signore”.
Secondo Heidegger, infatti, l’uomo vivrebbe nell’oblio dell’essere, e perché l’uomo possa scoprire il senso dell’essere è necessario che sia lo stesso “essere” a svelarlo. L’uomo sarebbe infatti solo il “pastore” dell’essere, non il padrone. L’essere si svela all’uomo nel linguaggio della poesia, in quanto nel linguaggio della poesia non è l’uomo che parla, ma l’essere stesso: da qui l’atteggiamento di “abbandono” all’essere, di ascolto in silenzio dell’essere.
Per Heidegger la caduta dell’uomo a livello delle cose è determinata dalla “chiacchiera”, dalla logica del “si dice” e del “si fa”: tale esistenza anodina è caratterizzata dalla “curiosità ” (un interesse superficiale per qualsiasi cosa) e dall’”equivoco” (il non sapere di che cosa si parla). Mentre l’esistenza “autentica” è un “essere per la morte”. L’uomo autentico per Heidegger è infatti un “essere per la morte” nel senso che deve avere il coraggio di andare oltre la visione anonima della morte (il “si muore”) per vederla come la “propria” morte. Di fronte alla morte l’uomo scopre la sua finitezza e la precarietà di ogni suo progetto, ma proprio con la presa d’atto dei suoi limiti l’uomo diviene ciò che è.
Scriverà Daisetz Teitaro Suzuki rievocando un suo incontro con Heidegger: “Il tema principale del nostro colloquio è stato il pensiero nel suo rapporto con l’essere. (…) ho detto che l’essere è là dove l’uomo, che medita l’essere, avverte se stesso, senza però separare sé dall’essere.” Allo stesso modo Søren Kierkegaard avrà a scrivere: “Dio non pensa, Egli crea; Dio non esiste, Egli è eterno. L’uomo pensa ed esiste e l’esistenza separa pensiero ed essere, li distanzia l’uno dall’altro nella successione.” (Postilla conclusiva non scientifica alle Briciole di filosofia). Similmente Sant’Agostino concepisce Dio come la meta naturale a cui la ragione aspira, e nel quale finalmente la discordanza dualistica tra soggetto e oggetto, pensiero ed essere, si riconcilia in unità . Dio è “intimior intimo meo”, “più intimo a me di quanto io lo sia a me stesso” (Confessioni, III, 6, 11). Parimenti nello yoga, quando i sensi e la mente si acquietano, nella coscienza irrompe la luce dell’Atman: la coscienza dell’unità dell’anima con il Divino. Secondo i savi del Vedanta tutti i fenomeni (oggetti materiali e pensieri) sono semplici oggetti illuminati o manifestati dall’Atman, la Pura Coscienza, dunque non Sé.
Molti ignorano Dio per effetto di un’astrazione razionale dell’Unità divina, astrazione che sfocia in una separazione tra il divino e il creato, misconoscendo il carattere essenzialmente divino dell’esistenza. Quanto all’esistenza essa comporta due gradi: è l’Essere puro, quale Essenza del Creatore, ovvero l’esistenza intaccata dal nulla, quale essenza relativa delle creature. Come dire che l’esistenza degli enti poggia sull’Essere di Dio. È il caso di menzionare il koan zen: “Tutte le cose ritornano all’Uno, ma quest’Uno, dove ritorna?” Dinanzi a quest’Uno al “di là dei nomi e dei numeri” di per sé sussistente si resta abbacinati, e lo si loda come l’Unico*. Anche perché invece che quest’uno inconcepibilmente esistente sarebbe stato più facile non vi fosse nulla.
«Deus est sphaera intelligibilis, cuius centrum ubique circumferentia nusquam» asseriva Alano da Lilla. Dinanzi all’abisso dell’essere senza risposte si ritrasse spaventato Immanuel Kant: “Non ci si può trattenere dal pensare (ma tale pensiero è altresì intollerabile) – ebbe a dire – che un ente, da noi rappresentato come il supremo tra tutti gli enti possibili, debba dire a se stesso: io esisto dall’eternità e per l’eternità , al di fuori di me non esiste nulla, se non ciò che è qualcosa solo mediante la mia volontà , ma donde sono io sorto allora? A questo punto tutto sprofonda sotto di noi e tanto la massima perfezione quanto la minima ondeggiano senza appoggio”.
Nel libro dell’Esodo, Mosè vuole sapere come si chiama il Dio dei Suoi padri che gli si era rivelato, e Dio gli “risponde”: «Io sono colui che sono». Egli è infatti “Colui che esiste di per Sé stesso, l’Eterno, la Sorgente di ogni vita, l’Origine, tramite il Quale e nel Quale ogni cosa ha la sua sussistenza”. Dio è l’unico «Io sono» e «Io sarò», perché quel che Egli sarà , Egli lo è già . Nel Nuovo Testamento parimenti troviamo la esplicita dichiarazione di Gesù: «Prima che Abramo fosse, Io sono».
Altro particolare è che Dio rimane profondamente nascosto alla vista di Mosè, Egli si rivela e nasconde, manifesta la Sua presenza pur rimanendo invisibile. Mosè, appena rivelato il nome di Dio, si copre il volto, perché teme di guardare Dio. Ma vi è un paradosso nel racconto. Mosè ha fatto tanto per «vedere» e, ora che può finalmente farlo, si copre il volto? Si tratta evidentemente di un simbolo. Anche nell’arte islamica, alcune immagini raffigurano Maometto con il volto velato o attraverso il simbolo di una fiamma. Ciò deve connettersi al fatto che il volto della creatura umana, identificata con l’Uomo Universale, diviene il riflesso simbolico dell’Essenza divina. E poiché quest’ultima è di là della manifestazione, è per definizione irrappresentabile. A un secondo livello, gerarchicamente inferiore, il volto umano, coi suoi tratti specifici, è sinonimo di individualità . Ma negli Inviati divini (quali sono gli stessi Mosè e Maometto) questa individualità è totalmente estinta nel Principio, da cui l’abolizione delle fattezze fisiognomiche del volto in sede di raffigurazione artistica.
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*Questa unicità non comporta una addizione aritmetica delle cose esistenti, ma si riferisce all’esistenza intera, o meglio al suo Essere rispetto al Niente.
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