Di Lorenzo Pennacchi
Durante i mesi precedenti agli Europei di calcio del 2012, il governo ucraino intraprese un vero e proprio genocidio di cani randagi, per “liberare” le strade della città. La “PETA” (People for the Ethical Treatment of Animals) stimò che, in un solo anno a Kyev furono uccisi circa quindicimila animali, nei modi più disparati: soppressi a bastonate, bruciati vivi o letteralmente annegati nel cemento. Contro questo massacro, in ogni parte del globo, si mobilitarono diverse associazioni e movimenti animalisti, i quali, uniti ad una forte indignazione popolare, riuscirono perlomeno a smascherare quelle incredibili atrocità. Tuttavia, come il mondo moderno ci insegna spesso, la giustizia ha raramente la meglio sugli interessi economici. La manifestazione sportiva, infatti, incominciò regolarmente e delle migliaia di vittime non interessò più a nessuno. La “UEFA”, ovvero l’organo di governo del calcio nel Vecchio Continente, sostenne di aver donato più di quattro milioni di euro per sterilizzare i cani, ma questi soldi o furono intascati dai governanti o non arrivarono mai. Così, la Spagna vinse il trofeo, mentre esseri innocenti, invece di essere regolarmente sterilizzati, continuarono a perire, per rendere più presentabili i festeggiamenti di quella grande vittoria. Arrivati a quel punto, neanche a dirlo, la preoccupazione della maggior parte degli italiani fu quella di aver perso la finale.
Per più di un anno, nella testa di chi non avrebbe mai dimenticato quel massacro istituzionalizzato, non ci sarebbe più stata nessun’altra manifestazione sportiva paragonabile, parlando in termini di violenza e crudeltà, a quella di Ukraine 2012. Sfortunatamente, però, non è stato così. Brazil 2014 è un qualcosa di più che simile agli scorsi Europei. Anzi, a seconda dei punti di vista, può essere un qualcosa di ben peggiore. Le vittime questa volta non sono i cani, ma direttamente gli umani. Non si parla di uccisioni, ma di sfratti di massa. Non c’è il fuoco, ma ci sono le ruspe. Non è responsabilità della “UEFA”, ma della “FIFA”, ovvero la federazione internazionale del calcio. Da svariati mesi, alcune migliaia di famiglie non hanno più una casa. Il numero dei soprusi tende ad aumentare di giorno in giorno. L’ultimo caso in ordine di tempo è rappresentato dallo sgombero dell’insediamento di Jardim Sao Luis, a San Paolo, occupato da cinquecento famiglie, provenienti da altre favelas a loro volta abbattute per rendere più presentabili le città.
Mentre la gente muore di fame ed urla “we need food, not football”, in Brasile vengono costruiti alberghi e negozi di lusso, per rendere indimenticabile il soggiorno ai tifosi provenienti da ogni parte del mondo. Invece di investire soldi in settori quali l’istruzione e la sanità, il governo ha speso svariati miliardi di euro (senza contare le spese di mantenimento) per la costruzione degli stadi e per favorire la mobilitazioni all’interno ed all’esterno delle grandi metropoli. Come se non bastasse, le politiche di Dilma Rousseff a favore dell’agricoltura intensiva stanno ulteriormente danneggiando la foresta Amazzonica e chi la abita. Per questo, pochi giorni fa, alcune centinaia di indios hanno marciato contro il palazzo presidenziale per protestare contro le spese del mondiale. Il dissenso, è stato represso dai lacrimogeni, mentre gli indigeni tiravano delle frecce.
Da Patria del calcio, a centro di violenza: questa è la metamorfosi del Brasile che ha indotto il giornalista danese Mikkel Jensen a ritornarsene a casa, dopo aver aspettato una vita per testimoniare i mondiali. Così si è espresso il reporter: “In Brasile la notte si uccidono i bambini per strada per ‘ripulire’ la città e dare una buona immagine al mondo”. In questi giorni si è parlato molto, in particolare sul web, dell’attendibilità di questa notizia. Al di là di questa dichiarazione, comunque, la cosa importante da capire è che oggi stanno avvenendo episodi di violenza inaudita in Brasile, così come accadde in Ucraina nel 2012. Lo sport dovrebbe rappresentare un incontro tra persone e culture, non alimentare soprusi verso i già troppo poveri del mondo. Si può definire “sportiva” una manifestazione che non rispetta la vita? Se la risposta è no, allora, invece di starsene sul divano davanti alla tivù per più di un mese con tanto di birra e patatine, si dovrebbe seriamente pensare di boicottare la tanto amata nazionale. Certo, il calcio e gli “azzurri” rappresentano molto per l’Italia, ma “forse” non valgono tanto quanto una casa, un trattamento sanitario ed un’istruzione obbligatoria.
L’altra faccia del capitalismo, quella che, dopo aver relegato i poveri alla morte, soddisfa i bisogni superflui degli altri, è presente anche in Brasile. Dinnanzi alla miseria, come già accennato, c’è anche lo splendore, il divertimento e soprattutto l’ipocrisia. Non a caso, ma come al solito, gli sponsor sono tutti grandi marchi multinazionali, tra cui: “Adidas” con il suo spot pubblicitario molto “educativo”, nel quale il calciatore tedesco Lukas Podolski ha in mano un cuore di vacca; “Coca-Cola” che a seguito dei numerosi episodi di sfruttamento in Amazzonia “merita” questo ruolo; ed ovviamente “McDonald’s”, il più grande fast-food al mondo, maggior responsabile, tra i suoi innumerevoli crimini, dell’obesità tra i bambini del pianeta, molto in linea con quelli che dovrebbero essere i messaggi di una manifestazione sportiva. Mettiamoci anche il fatto che saranno anche i primi mondiali a cui parteciperanno squadre nazionali, di nazioni praticamente inesistenti, sempre più omologate e depredate dalle politiche globali.
Non sappiamo che Mondiale sarà, ma molti in Brasile ne hanno già fatto le spese. E questo dovrebbe bastarci per non rimanere impassibili. (Non) si parte il 12 giugno.
Commenti
Posta un commento
Partecipa alla discussione