Di Vittorino Andreoli *
La
fragilità genera saggezza, il senso di perfezione produce invece
soltanto potere. La saggezza a sua volta avvicina alla serenità.
Conosco
molti saggi. Non sono noti a un mondo che si lascia colpire solo dai
potenti, da chi fa baccano, spesso con le armi per conquistare terre
e uomini, per lottare contro nemici che, se non esistono, vengono
inventati.
Il
potere si fonda sulla cultura del nemico. Senza questa categoria, il
potere diverrebbe miseria: si regge sempre sulla presenza di un
antagonista che va eliminato o soggiogato. E nemico è chiunque abbia
un potere che possa competere con il proprio, e si finisce per
considerare nemici le persone che prima si pensavano alleate e le si
combatte per riprendersi i privilegi che si era loro concessi.
Il
potente dona solo per compromettere e quindi su un calcolo che segue
la legge semplice e spietata del trasformare il tuo in mio. La logica
del mio da allargare fino a diventare padrone della terra e padrone
di tutti gli uomini che la calpestano.
I
saggi non amano il potere, aspirano a non essere condizionati dalle
cose, ma semmai dalle relazioni.
Occorre
avere quel tanto che non immetta nell'indigenza, perché la povertà
e la miseria non permettono la libertà, quel tanto che serve per
vivere e per soddisfare i bisogni essenziali: non serve molto e lo si
può ottenere senza entrare nell'agone del potere.
Il
potere da una parte, la saggezza dall'altra.
Il
saggio non ama ergersi sopra un monumento o costruirselo, ma desidera
vivere sereno. E la serenità ha come premessa di non avere nemici.
Il nemico è una idea, prima che una persona ben identificata e
capace di fare del male. Il nemico abita nella propria testa e da lì
invia i propri attacchi e si fa pericoloso.
Il
saggio guarda alle persone come ai propri simili e li osserva con
curiosità e quindi con la voglia di conoscerli e di ascoltarli. Il
potere riduce lo sconosciuto alla sua possibilità di attaccare e di
mettere in pericolo il proprio patrimonio, il proprio «mio». Anche
se è un uomo nudo, lo si riveste di ogni camuffamento, e diventa
nemico, indipendentemente da quello che ha e che effettivamente può
fare.
La
saggezza vuole serenità, desidera vivere con il sorriso, guardare
con interesse, e attraverso la storia dell'altro conoscere meglio se
stesso. La relazione è un insieme che genera novità e arricchisce
sé e l'altro.
Per
il potente, l'altro è solo un pericolo.
Il
saggio non accumula beni, offre il di più e vive tra saggi che
donano ciò che avanza. Così si dà e si riceve e si ha sempre una
dispensa generosa poiché se non hai nemici, dappertutto trovi ben
volere.
Il
saggio sa che la serenità è altra cosa rispetto alla felicità a
cui guarda il potere. La felicità è una sensazione acuta che si
attiva a seguito di uno stimolo di piacere di fronte a una vittoria
strepitosa. Terminato lo stimolo, la reazione finisce e rimane il
vuoto.
La
serenità è uno status continuo, una condizione che non tramonta
poiché si lega a una visione del mondo che si fa strutturale al
vivere. Non ha acmi spasmodiche, non è fatta di orgasmi, ma di
continue percezioni positive che si ricevono in quanto si
distribuiscono, e si finisce per trovarsi in un mondo in cui domina
la cultura della solidarietà e della condivisione. Il saggio aborre
il potere poiché sa che da quel momento, carico di oggetti, si è
invidiati e si finisce per essere derubati e, per evitarlo, si devono
costruire fortezze, avere guardie, poter spaventare.
Il
saggio semmai è soddisfatto di se stesso come persona, laddove il
potente è soddisfatto solo da ciò che ha, che possiede, dalle cose
che lo addobbano ma che non sono mai patrimonio della propria
individualità, del proprio essere. Sono cose che uno ha, ma non che
è. I saggi del mondo sono dei nessuno per il potere e per la cronaca
che è gestita dal potere.
Il
saggio è uno che vive con la percezione di essere utile a tanti, per
come sono e non per quello che hanno. Il patrimonio è inversamente
proporzionale alla saggezza.
Chi
ha ricevuto per rispetto e per amore sa dare di tutto anche se non ha
nulla. Egli è disposto a donare la propria vita.
E
bello non avere nulla eppure non mancare di ciò che permette di
vivere e di vivere serenamente. La serenità dipende dalle persone
non dalle cose.
L'altro
da sé, per il saggio, è un amico fino a prova contraria: del resto
se sei avvicinato e non hai nulla, non può che accadere per quello
che sei tu. Mentre chi possiede tanto, è colto dal sospetto che,
chiunque lo cerchi, lo faccia per ciò che ha e mai per quello che è.
La
proprietà, il «mio», è veramente sintomo di una malattia che può
farsi grave e che porta a isolarsi, circondati da guardie del corpo
e' da eserciti.
Il
saggio non teme nulla - e per questo è deriso dal potente - non ha
nemici, essendo egli innocuo. Appare come uno stupido, uno che non
raccoglie da terra nemmeno una banconota di grande valore, poiché
non ha bisogno di nulla e semmai aspira ad avere un maggiore numero
di amici, una conoscenza allargata del mondo, fatto di persone e non
di oggetti.
Non
sa odiare nemmeno il potente, gli appare come un malato che non si
può curare, poiché vedrebbe l'intervento come un attentato.
Il
saggio non è il sapiente, !'intellettuale, carico di titoli e di
lauree. Non si riferisce necessariamente a testi di difficile lettura
e interpretazione, ma alla propria esperienza, alla soddisfazione che
prova nell'alzarsi il mattino e nel coricarsi la sera avendo operato
per la serenità di chi ha vicino. Non ha programmi, semplicemente
vive.
E
non si dica, non lo si dica mai, che la saggezza è contro lo
sviluppo sociale, e che se avesse dominato nella storia saremmo
ancora all'età della pietra e delle caverne, senza benessere, con
una medicina fatta dishamani e non di professori
dell'Università di Harvard e di Cambridge.
La
saggezza è estremamente curiosa, e questo è il vero motore della
scoperta. Mancherebbe soltanto la ridondanza della tecnologia.
Il
dramma del potere è di aver sfruttato ogni scoperta per il denaro,
ridotta a denaro contro ogni senso del limite e ogni buon senso.
La
fisica delle particelle, tesa a chiarire il mistero e la costituzione
della materia e del sempre più piccolo, è stata usata per costruire
strumenti di distruzione, per vincere le guerre e per farsi più
forti agli occhi dei nemici. L'elettronica che poteva servire a unire
insieme il mondo, avvicinando o annullando le distanze, è diventata
un mezzo che ha sostituito la mente dei singoli e ormai opera
mettendo a riposo la carne che va in putrefazione e trasformando la
vita umana in vita digitale.
La
saggezza ama capire e scoprire, il potere sfrutta invece ogni
scoperta nell'idea unica e fissa del potere, di come contenere il
nemico o ridurlo in schiavitù.
Sono
stati i saggi antichi a rimanere seduti la notte a osservare le
stelle e durante il giorno a guardare il sole dal sorgere fino alla
sua caduta nell'orizzonte. I potenti di allora andavano a depredare e
a uccidere molti animali, non solo per nutrirsi ma per fare mercato
e, quindi, per accumulare in maniera inutile alla vita, ma necessaria
al potere.
L'avanzamento
delle società è nelle mani dei saggi non dei potenti, i quali si
dedicano solo alle armi e alla tecnologia dell'ammazzare fino a
inventare i missili intelligenti che colpiscono obiettivi sensibili e
a commercializzare le mine antiuomo.
Se
la società fosse stata in mano ai saggi - ipotetica irreale poiché
i saggi non vogliono mai comandare, ma semmai esprimere le
convinzioni che non sono idee teoriche, ma sempre esperienza di vita
- sarebbe molto più avanzata e conoscerebbe la pace, non la guerra.
Ecco
una differenza sostanziale: i saggi vogliono la pace e non
concepiscono affatto l'uccidere, per nessun motivo, mai, di certo non
per conquistare potere e arricchirsi.
Finché
domina la logica della guerra e le società spendono tempo e denaro
per questo abominevole sistema di conquista, anche se tutti lo
definiscono di difesa, è segno inconfutabile che la saggezza è
estranea al mondo e che i saggi sono uomini sereni ma emarginati
nella società e inutili al suo governo.
Occorre
ammettere che la guerra non è una follia, come si tende a sostenere
dagli stessi che poi la coltivano, ma è una conseguenza, logica e
necessaria, del potere. Finché dominerà il potere e la corsa al
potere, sia pure nelle vesti del successo, della vittoria del più
bravo, risultato di contabilizzazioni contraffatte, sarà lo
strumento a cui le società ricorreranno costantemente, poiché la
guerra è parte delle aziende che devono produrre armi e smerciarle
sui mercati e per questo c'è un unico sistema: fare le guerre. Non
può un'industria produrre e mettere nei magazzini, deve vendere, e
per vendere occorre consumare: missili, aerei da combattimento,
accessori bellici. La guerra non è un tema di politica e di alleanze
forti, ma semplicemente si lega alla ricchezza che, dalla produzione
alla commercializzazione, si ottiene.
Il
saggio non concepisce la guerra e la bandisce a partire dalle
relazioni interumane, mentre chi vuole la guerra l'applica già
dentro casa, tra vicini, tra compagni di lavoro, nella scuola, come
sistema di educazione che è prima di tutto strategia di lotta. La
saggezza chiede che non si faccia la guerra e che si chiuda il
mercato delle armi e poi che si calmino gli animi. Senza la
cessazione della produzione degli strumenti di guerra, la guerra
continuerà e la si farà dovunque e per i più futili motivi, pur di
consumare armi e di continuare a produrle, e il loro uso significa
solo morte, morte di soldati e di civili poiché nessuno più
combatte nei campi di battaglia lontano dalle città.
La
guerra, oltre alla morte attuale, produce odio che fomenterà voglia
di nuove guerre; e l'odio è lo sport preferito dalle industrie
belliche che vivono di bambini e di donne massacrati dalle bombe
intelligenti, dalle mine antibambino. Se si rompono i corpi senza
ammazzare, si attiva una industria dell'handicappato di guerra che è
sempre sussidiaria a quella dell'ammazzare diretto.
Il
potere vuole la guerra e l'odio che la rende perenne, la saggezza non
conosce l'odio e non sa concepire la guerra, anche se la conosce e si
sente importante nei suoi confronti. La guerra è dentro il potere,
fa parte della mente alterata dal possedere e dal possedere sempre di
più che riduce la testa a un magazzino o a centrale di
contabilizzazione dell'avere e del desiderio di avere. E la guerra è
un sistema per avere presto e tanto.
La
pace non è un miraggio, ma una necessità di esistenza: per stare
insieme, per condividere la condizione umana, per sostenere l'uno con
l'altro di fronte al dolore e per non creare nuovo dolore. La guerra,
se evitata, non aggiunge al dolore inevitabile quello che il
capriccio del potere invece causa. La stupidità della guerra, la
guerra dentro la mente e nella visione del mondo, prima che nei
cannoni o nei missili tele comandati.
La
saggezza genera comprensione, sa che l'uomo può cambiare e che la
distanza tra una tragedia e la serenità è breve, talora solo di
qualche millimetro e si può ottenere con l'aiuto dell'altro e con
l'esempio che non è mai esibito, ma è parte di ogni piccolo gesto.
Il saggio non fa mai nulla di eclatante, ma semplicemente vive e
quando gli si riconosce di avere fatto un'azione eroica, subito
smentisce. Spiega che questa percezione deriva dalla visione del
potere per il quale rinunciare a qualcosa è follia, è incoerenza, e
dedicare tempo al prossimo è segno di incapacità di stare a questo
mondo, dove la sicurezza è soltanto garantita dal potere e dal
denaro.
Il
potente parla di leggi poiché è il vero legislatore, e nel
richiedere che vengano rispettate, sa di fare i propri interessi; il
saggio non parla mai di leggi, ma sempre di etica che si àncora alla
vita. È iscritta nella filosofia dell'esistenza e non su un libro
manomesso e continuamente corretto per essere aderente al tornaconto
del potere.
Fare
giustizia significa applicare la legge, essere morali vuoI dire
rispettare la vita e l'uomo. Nel primo caso si applica la
strategia del potere, nel secondo si considera la condizione umana.
L'etica riguarda sempre l'altro e il rispetto dell'altro, la
giustizia ha a che fare con il vantaggio del più forte, e per
ottenerlo si cambia una legge o la si promulga appositamente, la si
interpreta nel modo voluto con avvocati e giudici corrotti. La morale
non si corrompe, non ha bisogno di tribunali, non di leggi scritte
poiché considera l'altro come se stesso: convinti che la vita
dell'altro sia una parte che condiziona anche la propria. Non mors
tua vita mea, ma vita tua et mea.
Ecco
la distinzione, la giustizia divide e stabilisce chi ha vinto e chi
ha perso; l'etica afferma che entrambi hanno ottenuto rispetto: l'uno
dall'altro, in una rete in cui tutti hanno la stessa grandezza,
quella dell'umanesimo che si lega al fatto di essere uomini.
È
straordinario sentire di uomini morali, coerenti, rispettosi che non
accettano compromessi, che non stabiliscono alleanze a vantaggio di
alcuni e a danno di tutti gli altri. È bellissimo guardarsi in volto
il mattino e riconoscersi senza dover indossare delle maschere per
sembrare adeguati a ruoli che sono solo di potere, al servizio del
potere.
Confesso
di provare più pena per chi vive all'ombra dei potenti che non dei
potenti. Giullari inverecondi del potere, parassiti delle briciole,
disposti a rinunciare a ogni principio che sentono dentro di sé pur
di piacere al potere. Concubine raffinate che per essere penetrate
danno la propria mente, invece che il pube. Hanno perduto il senso di
colpa che permette il confronto tra ciò che si fa e ciò che si
sarebbe dovuto fare, e che permette di capire che aver agito contro
l'uomo significa anche essere andati contro se stessi. Con il senso
di colpa si ha voglia di chiedere scusa, e il saggio ama scusarsi,
rimediare, non nasconde i propri peccati e semmai li vorrebbe
dichiarare coram populo, in modo che il proprio
errore sia di utilità a tutti e possa servire per non sbagliare più,
poiché ogni volta che si va contro la morale umana, si tradisce la
dimensione dell'uomo, si colpisce un uomo, uno che è esattamente
come te, uno che è legato a te: colpendolo o trattandolo
immoralmente colpisci te stesso.
Per
il saggio la violenza sull'altro è autoaggressione. Per questo non
gli è possibile fare del male e tanto meno dichiarare guerra.
Il
potere, al contrario, pensa che eliminando l'altro o colpendolo si dà
più forza a se stessi o al proprio clan.
Il
potente parla di giustizia, poiché sa di manipolarla, e mai di
morale, poiché il potere è amorale, è contro il rispetto
dell'altro.
È
bellissimo sapere di essere tra i giusti pur temendo sempre di non
appartenervi, poiché bisogna continuamente essere attenti a non
deragliare. Per questo il saggio non è mai un impulsivo, ha bisogno
di meditare.
La
saggezza ha un uso del tempo diverso dal potere che deve sempre
decidere subito, poiché essere in ritardo, anche di un momento,
significa dare vantaggio al nemico e quindi rendere più incerta la
vittoria.
Nessuno
deve vincere, semmai bisogna stare attenti che nessuno perda poiché
allora tutti hanno perduto.
La
democrazia è una finzione, uno slogan, il vero rispetto di tutti è
parte dell' etica, non dei sistemi di governo, non dei piani di
partito che sono sempre all'insegna del potere e dunque del più
forte. Basterebbe a sostenerlo il fatto che il tempo ha inventato la
«tirannia democratica»: vecchi autoritarismi assoluti
rivestiti di volontà del popolo, attraverso votazioni truccate o
guidate da slogan e condotte da mezzi di convincimento e di
suggestione.
Si
crede di aver fatto una scelta tra più opzioni, mentre si è seguita
una imposizione colorata di democrazia per dare il potere assoluto.
La
democrazia in senso proprio è dentro la morale e fa parte della
saggezza.
Il
saggio rispetta tutti e aspira a fare del proprio simile una parte di
sé attraverso la solidarietà, l'aiuto reciproco e il rispetto.
Il
potente è un bugiardo e, poiché si ritiene il sommo tra gli uomini,
finge con se stesso, non tiene conto del valore degli altri e così
afferma una cosa e il suo contrario, a breve distanza, senza curarsi
dell'incoerenza, e chi osa rilevarla è considerato un nemico da
eliminare, attraverso una delle possibili vie oggi esistenti per
ammazzare un uomo: toglierli la vita fisicamente, oppure colpirlo
nella personalità, e dunque lasciando che il suo cadavere cammini,
oppure ancora rovinandolo nella sua posizione sociale e mostrandolo
come un abietto.
Il
potente non perdona mai, poiché la clemenza è considerata un atto
di debolezza. Assume sempre gli atteggiamenti e le affermazioni che
si presentano in quel momento utili alla sua grandezza e
all'allargamento del suo potere: questa è l'unica coerenza. E in
questo sbandierare vessilli differenti egli è convinto di avere la
verità, anzi che egli è la verità.
Il
saggio pensa alla verità, ma sa di non possederla. Sente che
cercarla è un esercizio che migliora chiunque la cerchi, mentre il
pensare di possederla fa ritenere che sia qualcosa che appartiene
solo al potente e sulla cui base egli possa giudicare e condannare in
nome della verità.
È
curioso, la falsità si coniuga alla convinzione assoluta di avere la
verità. Troppe guerre sono state condotte in nome della Verità, del
Diritto, del Dovere. Troppe stragi sono state perpetrate per la
verità, come se la verità richiedesse morti e dolore.
Una
concezione perversa. E in questo clima qualsiasi principio, e persino
principi opposti, possono essere ritenuti verità.
Il
potere è una disgrazia e un'infamia, e si serve sempre della
violenza, l'arma segreta del suo mantenimento: l'epurazione del
nemico. Una volta eliminatone uno, subito ne percepisce un altro, e
poi ancora un altro fino alla misantropia che diventa culto di se
stesso.
Il
potente ricorda solo le vittorie e dimentica le sconfitte, anzi
nemmeno le percepisce.
Vede
sempre il mondo dalla superficie, senza mai chiedersi cosa sia e il
perché del mondo e dell'uomo dentro il mondo. È dominato da un
ottimismo acritico, basato sulla potenza accentrata su di sé.
Manca
di fantasia, essendo attento solo al concreto, semmai delira
avvertendo una potenza che supera quella reale. La fantasia malata
del possedere ancora di più, sempre di più, fino a incorporare
tutto ed essere padrone di tutto. E padrone degli uomini.
Il
saggio non è un ottimista, conosce il dolore. Sa che nel prossimo
attimo tutto può mutare e il sereno lasciare il posto a un
acquazzone. Egli è un pessimista poiché sa del male che governa il
mondo, ma è un pessimista attivo che opera, che aiuta gli altri, che
cerca di migliorare la società senza tuttavia volersi imporre.
Il
saggio sa come il mondo andrebbe guidato, possiede una fantasia
attiva e dunque, pur nella emarginazione, pur nella veste del
nessuno, sogna e intravede una modalità per vivere meglio, perché
la serenità appartenga a tutti. Non pensa mai di imporsi, sa che il
potere, anche quando lo si vorrebbe come condizione transitoria, si
trasforma in una tirannide perpetua.
La
fragilità, fonte di saggezza, non spaventa mai, cerca la stima, non
la pretende, ma agisce per meritarla.
Nella
visione del saggio domina non la verità ma il dubbio. Il potente non
ha dubbi e considera chiunque li esprima un debole, un succube per
costituzione mentale. Un gracile nella mente.
Il
potente, nella certezza di aver raggiunto l'apogeo della grandezza,
non ama che lo status quo, non modifica nulla poiché
ormai possiede ciò che un uomo può raggiungere e se fosse possibile
salire ancora, egli andrebbe più in alto.
Sono,
dunque, la saggezza e la fragilità a sottendere e a spingere a
migliorare le società, mentre la tirannide è sempre una condizione
di stallo, invisa a nuove esperienze che costituiscono o possono
essere una strategia oscura del nemico, di qualche nemico. La
saggezza non è conservatrice, mentre il potere diventa fissismo in
una celebrazione esaltata, in una autocelebrazione che si ripete, si
auto-osanna.
Ci
sono piccoli poteri: il padrone della famiglia, dell'azienda, l'uomo
forte nella scuola.
Muta
solo la dimensione del regno, ma non lo stile, anzi, spesso lo si
evidenzia in maniera ancora più cruda, poiché si esprime e si
consuma in un piccolo spazio e su poche persone che subiscono il
potere in maniera più macabra e più evidente. Talora la cattiveria
del potente minore raggiunge livelli incredibili proprio perché,
esercitando quel piccolo potere, egli pensa a un potere maggiore, che
vorrebbe avere ma che non ha ancora raggiunto, e forse rimarrà per
sempre il persecutore dei propri figli e della propria moglie o di
quei pochi «bisognosi» che sono caduti nella sua rete.
Il
saggio non ha gradi, non si distingue in grande e piccolo. La
saggezza si esprime sempre con lo stesso stile in ogni circostanza e
non è compatibile mai col potere, con la sua perversione. Il saggio
è sempre fuori del potere, lo fugge come uno degli inganni più
repellenti e più pericolosi che l'uomo possa correre e da cui deve
scappare.
La
sofferenza mette in risalto la fragilità dell'uomo e del saggio:
nasconderla per mostrarsi potente, rende simili a un soldatino che,
indossata una corazza e un elmo e salito su un ronzino, si crede
imbattibile.
Il
saggio conosce la speranza che non è la certezza del potere e la sua
arroganza, ma il sapere che ogni piano si colloca dentro il mistero e
che il mistero rimanda sempre all'altro e persino a un Altro. La
speranza dipende dal singolo, ma anche dal mistero che lo avvolge. E
bellissimo sperare e sperare in tanti. La speranza presuppone anche
l'immaginazione, la possibilità di costruire un mondo grande o
piccolo, diverso e migliore. E si spera che quel piano della fantasia
e del sogno si possa realizzare.
Il
potente ha paura persino dei sogni e li vorrebbe giustiziare,
sconfiggere: sono sempre affermazioni o attestazioni di pericoli. Non
parlano mai di mistero, ma sempre di storia. E allora si riducono a
strategia o a suggerimenti per gestire il potere, per come difenderlo
dai nemici e poi allargarlo. Non c'è altra immaginazione possibile.
Si
ritiene abitualmente che la modestia sia una strategia del successo,
di chi sente la propria importanza e significatività, ma
fittiziamente la nega per ottenere qualche vantaggio nel giudizio che
ne può scaturire. La modestia è, invece, la totale assenza
di percezione della grandezza che altri possono attribuire. Se
considerano eroica un'azione o la caricano di valore, per chi l'ha
compiuta rappresenta la sola risposta di cui egli era capace e dunque
la sola opzione possibile. Egli non avrebbe potuto che
comportarsi in quel modo e quindi ai propri occhi risulta un fatto
persino banale.
Nulla
che possa rimandare a una captatio benevolentiae, la
modestia è il risultato del ritenersi una persona ordinaria,
coerente con i propri princìpi e in sintonia con il proprio dover
essere.
Del
resto chi ha la sensazione della propria fragilità come potrebbe
considerarsi grande, vedersi, anche solo qualche volta, in maniera
sublime?
Egli
è un uomo che nella vita può rompersi e ridursi ai frammenti di
quel vaso, che può perdere il proprio contenuto e rimanere nulla.
Semmai
constata che non si è ancora rotto e che sarebbe potuto succedere e
di questo ringrazia le circostanze e forse anche la fortuna che è
parte del mistero della vita, di una concezione in cui non tutto è
spiegabile e non tutto verrà spiegato mai. Ogni sapere ha rimandato
sempre a un altro sapere, e ogni dato ha mostrato che almeno un
mistero si è aperto e dunque che la conoscenza è allo stesso tempo
sapere e ignorare.
Il
potente è sempre più attaccato alle cose, poiché deve averne di
più e su quanto egli possiede si abbarbica come un'edera che
vorrebbe abbracciare tutto, mentre il saggio ne è sempre più
distaccato e si interroga sul senso delle cose. Se non danno
significato alla vita, allora anche possederle tutte non significa
nulla.
E
ritorna il senso dell'esistenza, che il potente dimentica o riduce
alla quantità, mentre il saggio lo situa dentro l'uomo, in qualcuno
che ama o che desidera aiutare, in un'atmosfera in cui tutti sono
amici o potenziali amici. E allora una piccola cosa, che non
vale nulla al mercato del denaro, può farsi utile, anzi piena di
significato: un simbolo senza valore, ma indispensabile alla propria
vita, come l'anello che portava il proprio padre morto e che adesso
indossa il figlio, che così lo ricorda sempre e lo fa vivere in
quella mano che si muove come se fosse quella stimata e benedicente
del proprio padre.
Il
saggio scopre la grandezza delle idee, il piacere di darsi, di amare,
di perdonare, di offrire un sorriso, non un brillante, di distribuire
sguardi di comprensione e di disponibilità. È bello esserci, anche
per chi non ha bisogno in quel momento di nulla; è bello sapere di
esserci per darsi e non per dare oggetti, cose.
Il
potente talora fa l'elemosina, un gesto di potenza su un miserabile;
il saggio offre se stesso, gode nell'essere utile alla fragilità
dell'altro e nel sapere che l'altro è utile alla propria: si tratta
sempre di relazioni e mai di servizi.
Darsi,
e non dare, aiuta a scoprire di quante piccole cose la fragilità sia
capace, a partire dal capire i bisogni degli altri. E per lo
più non hanno necessità di un'astronave ma di un sorriso, di
un'attestazione di stima, mentre si crede di non valere nulla e che
nessuno li consideri.
Il
saggio è ricco di idee e di idee profonde, sa andare dentro il
senso, sa filosofare. Il potente è l'uomo delle abbuffate,
dell'apparire, e si mette stemmi dappertutto per incutere timore:
deve spaventare anche senza svolgere un'azione. Le insegne e l'abito
dicono cosa egli potrebbe fare.
Il
potere ama la giovinezza; la saggezza ha un'alta considerazione della
vecchiaia perché chi ha vissuto tanto, ha imparato molto, magari
raccogliendo errori che ora non compie più.
Il
potente pensa che tutti abbiano bisogno di lui, mentre il saggio
crede di avere bisogno di tutti, non per sfruttarli ma per dare,
poiché è più bello dare che ricevere e talora si riceve solo per
fare piacere a chi ha donato. Alla fiducia del saggio si contrappone
il sospetto del potente. L'uno sa giocare, l'altro conquistare e
dunque abbattere e soggiogare.
In
un caso il mondo è fatto solo di nemici, nell'altro sono tutti
amici: si tratta solo di conoscerli e di capirli, nel tempo stesso in
cui si viene considerati e capiti.
Ecco
ancora la fragilità che aiuta e cura l'altrui fragilità. È
impossibile fare lo psichiatra senza questa convinzione profonda:
senza «dire» a chi lo incontra che egli vuole, desidera e crede
possibile legarsi a lui, fargli percepire che è un uomo che egli
vuole conoscere, stimare e scoprire. È fondamentale mostrargli che
proprio questa è la base dell'aiuto che lo psichiatra, e io, vuole
dargli. E che il resto, gli strumenti tecnici che pure sono
importanti, hanno un ruolo e un significato complementari.
Solo
da questo legame è possibile sperare di aiutare e di curare,
altrimenti l'incontro si riduce a un rito che ha lo scopo della
parcella in cambio di un autografo scritto su una ricetta che delega
a delle sostanze amorfe un compito irrealizzabile.
Soltanto
dentro la relazione umana quel farmaco viene personalizzato,
diventando prima ancora che un principio attivo nel cervello, secondo
certe leggi della biochimica, il simbolo della presenza di me
psichiatra, e quando il paziente lo assumerà si renderà conto che
ci sono io e che mi porta dentro di sé. Talora per attivare questa
comunicazione senza la quale io non mi sento psichiatra, quando le
parole o le espressioni del mio volto mostrano delusione e la voglia
di continuare ancora senza stancarmi mai - e i miei colloqui ormai
durano dalle due alle tre ore - prendo la mano del mio paziente e la
stringo, l'accarezzo, riduco le espressioni dello stare insieme ai
gesti che una madre dedica al proprio figlio bambino, e insisto fino
a che sento che anche la mano che stringo comincia a stringermi e che
la mimica che era fissata, marmorea, comincia a mobilitarsi: è
l'inizio di un sorriso, difficile poiché in quell'uomo i sorrisi
sono sempre stati preludi di violenza.
Sono
incredibili la soddisfazione e la commozione che ho provato di fronte
a casi di autismo e alle oligofrenie. Nel vedere questi esseri
minimi, ridotti solo a qualche sembianza, cominciare a muovere la
propria interiorità in nuce e poi, a poco a poco,
raggiungere livelli di espressione più ricchi fino a esprimere la
voglia di stare ancora con me e di continuare a vivere in una
relazione che mai hanno sperimentato.
Gli
oligofrenici sono uomini bloccati, ma attivabili entro ambiti che,
anche se limitati, sanno di miracolo. Un miracolo delle relazioni
umane e della psichiatria vissuta come umanesimo, con la saggezza dei
limiti, dei propri limiti di psichiatra, e non con l'arroganza delle
onnipotenze in camice bianco che sanno solo di follia strumentale.
Ricevere
un sorriso da un depresso che vuole solo morire, ma che adesso
comincia a desiderare di vivere con il sorriso sulle labbra, è
magnifico e gratifica più di ogni parcella riscossa sul mercato
della sofferenza.
Lo
psichiatra non può condividere la vita con un solo paziente, poiché
la domanda di aiuto è molto frequente, ma certo può aprire un varco
nel mondo di molti, di molti malati di mente.
E
bisogna indicare quella breccia alle persone che al malato sono
vicine affinché continuino ad allargarla, mostrare quanto sia bello
aprire una porta là dove sembrava che ci fosse il muro inespugnabile
della malattia di mente.
E
così si rimane presenti attraverso chi continua a operare e si è
attivi con i simboli degli aiuti tecnici, della telefonata periodica,
del controllo che sempre più diventa un incontro tra amici, una
verifica che la vita è possibile anche nel deserto e che la malattia
di mente, la follia, la si può vincere sempre, purché ad agire come
terapeuta sia l'uomo, non la medicina.
Per
questo lo psichiatra prima deve essere un uomo, e questo è l'aspetto
più difficile.
Uomo
significa certamente essere consapevole di agire con la propria
fragilità, mostrandosi bisognoso persino di un oligofrenico o di un
bambino autistico.
* L'uomo
di vetro La forza della fragilità , 2008 Rizzoli
Commenti
Posta un commento
Partecipa alla discussione