Di Roberto Roveda e Alessandra Favazzo
Dopo la corsa all’oro nero e all’oro blu, la "nuova" risorsa preziosa su cui gli speculatori hanno puntato lo sguardo è la terra.
È il fenomeno del land grabbing, letteralmente “accaparramento della terra”, cioè l’acquisizione da parte di privati o di enti governativi stranieri del diritto di sfruttare terreni coltivabili. Solitamente ne fanno le spese le popolazioni locali, che perdono così la loro principale fonte di sostentamento.
Il fenomeno è cresciuto in maniera vorticosa nell’ultimo decennio: secondo i dati forniti nell’aprile del 2012 dal portale Land Matrix, che monitora il land grabbing nel mondo, a partire dal 2000 sono stati attivati 1.217 contratti per lo sfruttamento su larga scala di terreni agricoli. Questi contratti interessano circa 83 milioni di ettari di territorio (poco più del 2% dell’estensione mondiale delle terre coltivabili), la maggior parte dei quali situati in Stati africani come il Sudan, la Tanzania, l’Etiopia, la Repubblica Democratica del Congo. Seguono poi aree dell’Asia e dell’America Latina. Ma da dove nasce questa rinnovata fame di terra?
Per tutta la seconda metà del Novecento, i prezzi delle derrate agricole si sono mantenuti molto bassi. Tra il 2007 e il 2008, invece, una serie di eventi concatenati, come la scarsità dei raccolti, le cattive condizioni climatiche e le limitate scorte di prodotti agricoli in alcuni paesi, ha determinato una forte impennata dei loro prezzi. Questo aumento, unito al costante incremento della popolazione (si prevede che nel 2050 la Terra sarà abitata da 9 miliardi di persone), ha fatto scattare l’allarme in alcuni paesi fortemente importatori di materie prime agricole: quelli del Golfo Persico, l’Arabia Saudita, ma anche la Corea del Sud e il Giappone. Da qui è iniziata la corsa all’accaparramento dei terreni negli Stati più poveri.
Non è stato solo l’aumento dei prezzi dei prodotti agricoli a risvegliare l’interesse per la terra. Anche il business degli agrocarburanti, cioè i carburanti derivati dalla trasformazione di prodotti agricoli, e la recente crisi finanziaria hanno contributo al dilagare del land grabbing. Il fenomeno non è quindi destinato a rallentare nei prossimi anni, anche perché molto limitati sono stati finora gli interventi per arginarne l’espansione.
L’unico organismo internazionale a fare una mossa concreta contro l’accaparramento delle terre è stata la Fao che, nel maggio 2012, ha approvato le “Linee guida per i regimi fondiari e l’accesso alle risorse ittiche e forestali” varate dalla Commissione sulla sicurezza alimentare. Il documento ha individuato princìpi e pratiche ai quali i governi di tutto il mondo dovrebbero ispirarsi per garantire un più equo accesso alla terra. Benché l’elaborazione di tali linee guida rappresenti un primo passo a livello legislativo contro questa nuova forma di colonialismo, le sue direttive non sono cogenti, quindi sono ben lontane dall’essere risolutive.
Da qualche tempo, gli accaparratori di terre hanno messo gli occhi sui suoli più fertili d'Europa. È quanto mette in evidenza Land Concentration, Land Grabbing and People’s Struggle in Europe, lo studio realizzato dal Coordinamento europeo Via Campesina e da Hands off the land, che mette in guardia sul pericoloso innalzamento del livello di concentrazione della proprietà delle terre europee.
Dal rapporto emerge un dato insospettabile: in Europa il 3% dei proprietari di terreni agricoli detiene il 50% di tutte le superfici agrarie; una situazione paragonabile a quanto avviene attualmente in paesi come il Brasile, la Colombia e le Filippine. Dopo Ungheria, Romania, Serbia e Ucraina, multinazionali e fondi sovrani stranieri hanno infatti spostato il mirino verso l’Europa occidentale: dapprima i cosiddetti Pigs, con in testa regioni come l’Andalusia e la Catalogna, poi Germania, Francia e Austria sono diventati oggetto di speculazione economico-finanziaria da parte dei colossi attivi nell’agro-business, degli hedge fund, delle aziende cinesi in espansione e degli oligarchi russi.
E l’Unione Europea? Certo in questi anni, con la Politica agraria comune, non ha frenato il diffondersi del fenomeno; anzi, lo ha favorito tramite l’elargizione di sussidi destinati quasi esclusivamente alle grandi aziende agricole. Una politica non lungimirante che da un lato ha di fatto impedito l’ingresso nel mercato agricolo di nuovi soggetti (piccoli proprietari in grado di contrastare lo strapotere dei “big”), dall’altro ha confermato una volta di più quanto il Vecchio Continente sottostimi il problema della terra, che non viene considerata alla stregua di un bene comune. Ovviamente il fenomeno ha già avuto ripercussioni considerevoli, con alcune derive violente.
A opporsi in modo più netto al land grabbing sono state soprattutto le popolazioni locali le quali, nei casi più estremi, sono state protagoniste di episodi di rivolta e di occupazione di terre. È il caso della comunità contadina di Narbolia, in provincia di Oristano, che si è unita contro un piano che prevede l’utilizzo di centinaia di ettari di terra coltivabile per la costruzione dell’impianto di serre fotovoltaiche più grande d’Europa. Ma il problema riguarda anche le aree urbane.
Recentemente le rivolte hanno coinvolto la città di Vienna, dove un gruppo di giovani cittadini è tuttora in mobilitazione per costituire una comunità agricola all’interno di un contesto urbano.
Episodi di disperazione e di opposizione che - sebbene in contesti totalmente differenti - ricordano alcune sollevazioni popolari esplose recentemente in Africa o nel Sud Est asiatico, dove il fenomeno del land grabbing ha avuto inizio nei primi anni Duemila.
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