l festival Sonar 2013 all'Harpa di Reykjavik, febbraio 2013
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Di Daniel Verdú
Se
il tracollo finanziario del 2008 in Islanda spesso è stato
interpretato come un segno premonitore della crisi europea, forse
adesso è ora di ispirarsi alle soluzioni adottate dal paese. A
differenza del sud dell’Europa, dove i tagli alla spesa e gli
aumenti delle imposte hanno dissanguato l’ambiente culturale,
questo paese di 320mila abitanti, grande quanto il Portogallo, dal
2008 ha investito proprio nella cultura. Le ricadute economiche di
questo settore (che assicura al paese introiti per circa un miliardo
di euro l’anno) sono due volte più importanti di quelle
dell’agricoltura, e il settore creativo segue da vicino la prima
attività industriale del paese, nonché la prima risorsa delle
esportazioni: la pesca.
Ciò
si deve in parte a una dolce e minuta signora di 37 anni, la ministra
della cultura, che in quattro anni al governo ha scelto di mettere
gli artisti al primo posto e di farne i protagonisti della ripresa
economica del paese. Oggi il tasso di disoccupazione in Islanda è
del 5,7 per cento e la crescita è al 3 per cento. È vero, il paese
ha svalutato la sua moneta e ha lasciato
fallire le banche,
rifiutandosi di pagare i loro debiti con l’estero. Ma in buona
parte la ripresa è dovuta anche a questa specie di New Deal
artistico.
Il 27
aprile prossimo, in occasione delle prime elezioni indette da quando
il paese è riuscito a superare la crisi, questo inedito approccio
potrebbe però avere fine. A quanto sembra, infatti, gli islandesi
hanno la memoria corta e oggi il grande favorito dai sondaggi è il
Partito conservatore che era al governo quando il paese è andato in
crisi (la Borsa precipitò del 90 per cento, il pil di 7 punti
percentuali). La coalizione formata dal partito dei Verdi e dai
socialdemocratici e guidata da Jóhanna Sigurdardottir (prima donna
premier del paese) è in difficoltà.
La
ministra della cultura Katrin Jokobsdottir, indubbiamente il
personaggio più carismatico del governo, non lo nasconde. Nel suo
ufficio che si affaccia sul porto di Reykjavik, ripensa al suo
mandato, che simbolicamente associa alla costruzione della
spettacolare sala da concerti Harpa.
I lavori del cantiere erano stati fermati a causa della crisi, e
rilanciandoli lei ne ha voluto fare il simbolo della volontà del
governo di creare ricchezza attraverso lo sviluppo delle arti.
“Noi
consideriamo la cultura come la premessa dell’intero settore
creativo, che a sua volta costituisce una parte sempre più
importante della nostra economia. Quando sono entrata nel governo, la
cultura per me era una questione di sopravvivenza. Ed è questo che
ho cercato di far capire alla gente: la cultura è un fattore
economico molto importante. E può far guadagnare tanto quanto
l’industria dell’alluminio”.
Il
governo ha effettuato alcuni aggiustamenti di bilancio. Ha ridotto il
personale ai ministeri e tagliato le spese fisse. Ma tutto ciò non
ha impedito di aumentare i finanziamenti ai progetti culturali
indipendenti. Questa collaborazione tra pubblico e privato non ha mai
prodotto un disimpegno dello stato in tema di cultura e di
istruzione.
La
musica prima di tutto: l’80 per cento dei giovani (soprattutto
residenti nei piccoli centri) suona uno strumento e impara il
solfeggio. Questo si traduce in decine di gruppi con un pubblico
internazionale. Se la maggior parte dei turisti è attratta dalle
bellezze dell’isola, secondo un recente sondaggio il 70 per cento
dei giovani si reca in Islanda per ascoltare la musica. Ciò era vero
già nel 2006, quando fu creato un ente apposito, incaricato di
promuovere la musica islandese all’estero sotto la guida di
Sigtryggur Baldursson, ex batterista dei Sugarcubes, la band con la
quale esordì Bjork e che contribuì a creare la reputazione musicale
dell’isola. Stando a quanto dichiara l’ente, l’anno scorso si
sono esibite al’estero 43 band islandesi.
In
parallelo alla musica, il settore del software e dei videogiochi ha
conosciuto una crescita esponenziale: “Anche qui siamo alle prese
con un derivato della cultura che dà lavoro a molte persone del
settore, specialmente gli illustratori” ha spiegato la ministra.
Quanto alla settima arte, da quando una nuova legge assicura il
rimborso dei costi di produzione dei film girati in Islanda, i
registi continuano ad arrivare: Ridley Scott ha girato qui il
suo Prometheus e
Darren Aronofsky Noé.
Basta soldi facili
In
realtà, già quando soldi e champagne scorrevano a fiumi erano in
molti a vedere nella cultura l’unica boa di salvataggio per
l’Islanda. Lo scrittore e poeta Andri Magnason nel 2006 ha
denunciato nel suo libro Dreamland un
modello economico imperniato sui soldi facili e sulla speculazione.
“Negli anni del benessere e del boom il governo si è concentrato
nello sviluppo delle banche, e nei settori dell’alluminio e
dell’energia idroelettrica che distruggono l’ambiente. Alcuni
auspicavano invece un’economia basata sulla creatività”. Proprio
da qui nacque questa insolita alleanza tra gli ambientalisti e i fan
delle nuove tecnologie, ricorda Magnason.
Bjork
e altri personaggi famosi islandesi si sono interessati a quel
movimento. “E quando la crisi è arrivata, il movimento aveva già
messo radici e coinvolgeva molti giovani”. Vari gruppi di lavoro si
sono così radunati in un Ministero delle Idee, riunitosi in una ex
fabbrica alla periferia della capitale. Ma Magnason riconosce anche
il ruolo importante rivestito dal governo. “I teatri sono andati di
bene in meglio. La vita letteraria ha trovato nuovo impulso (ogni
anno il governo sostiene 60 scrittori).
La
produzione cinematografica ha conosciuto un netto miglioramento,
proprio come il panorama musicale. Tutto ciò ha portato frutti in
ambito economico. Le arti non si sviluppano in parallelo
all’economia, ma sono essenziali al benessere economico del paese”.
Ma allora perché la gente ha intenzione di votare per il Partito
conservatore? “Indubbiamente hanno nostalgia della loro Range
Rover”, sbotta il musicista Olafur Arnalds in un caffè di
Reykjavik.
Malgrado
tutto, questo modello sarebbe perfettamente esportabile in paesi come
la Spagna o l’Italia, dove gli abitanti – come i problemi
economici – sono 150 volte di più. Magnason concorda: “Si tratta
di un modello valido nella maggior parte delle situazioni. Il
problema dell’Europa, e soprattutto dell’Italia e della Spagna, è
proprio la grande massa di giovani disoccupati, senza progetti, dei
quali governo e industria si disinteressano completamente. Questo è
un vero spreco di talenti”. Bisognerà toccare il fondo prima di
pensarci?
Traduzione
di Anna
Bissanti
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