Uno degli episodi antesignani della crisi dell'ultimo quinquennio, anche per il modo in cui è nato e si è sviluppato, è a nostro parere quello della piccola e pressoché dimenticata Islanda, che tra fine 2007 e inizio 2008 collassó sotto il peso enorme dei debiti, nel caso specifico delle tre principali banche nazionali.
Per il piccolo paese nordico non c'erano alternative, la dimensione del debito dei tre istituti bancari dai nomi impronunziabili era un multiplo di molte volte il PIL. Fu quindi decisa la nazionalizzazione delle tre banche (che per la cronaca si chiamavano: Kaupthing, Landsbanki e Glitnir) e il contestuale ‘default’ sul loro debito.
Gli impegni relativi ai titoli di stato del governo islandese hanno continuato ad essere onorati, non c'è stato quindi un vero e formale default dell'Islanda, tuttavia il fatto che ciò sia successo a delle banche nazionalizzate è stato visto dal mercato e dagli investitori come qualcosa di equivalente. A conferma di ciò, la Corona islandese si è svalutata di circa il 200% rispetto all'Euro. Movimenti valutari simili sono riscontrabili solo in situazioni di enorme stress finanziario e di paesi "falliti".
Tutto male quindi? I poveri islandesi sono finiti come gli argentini nel 2000-2001?
In effetti non proprio, o forse per nulla. Il default delle banche islandesi infatti è stato "controllato", poiché sono stati garantiti dallo stato tutti gli impegni sia relativi alle passività domestiche (come i conti correnti), sia alle attività (continuando ad erogare prestiti alle imprese locali); ciò ha consentito di proteggere le attività produttive, impedendo il collasso dell'economia.
Alcuni numeri relativi all'economia islandese possono illustrare meglio di qualsiasi discorso; la crescita del PIL dopo la ristrutturazione del debito bancario 2008 è stata in media del 2,5% (dopo un minimo di -8% a fine 2009), la disoccupazione dopo una prima impennata al 9% si è assestata al 5,5%, la bilancia dei pagamenti è costantemente in positivo. Anche l'accesso ai mercati finanziari internazionali si è rivelato meno problematico di quanto si sarebbe potuto temere; le emissioni del Governo islandese, che hanno un rating di Baa3/BBB- (era Aaa/AA- fino al 2007), sono scambiate a rendimenti tra il 2% e il 4%, inferiori sia a quelle italiane che spagnole e i più recenti collocamenti sono avvenuti senza problemi.
Certo, restano molti problemi legati al doppio regime di cambio per la Corona islandese; uno per gli scambi domestici fissato a circa 160 Corone per 1 Euro e uno per quelli internazionali pari a circa 230. Inoltre resta insoluta la controversia internazionale, soprattutto nei confronti di Olanda e Regno Unito, relativamente ai correntisti esteri delle banche islandesi, che a differenza di quelli domestici non sono stati tutelati.
Resta comunque il fatto che l'economia islandese gode di discreta salute nonostante tutte le passate traversie.
Può quindi l'Islanda essere presa ad esempio da altre economie appesantite da un debito eccessivo? Chi sostiene di no mette in evidenza le caratteristiche dell'Islanda che ne fanno un caso non "esportabile", sottolineando la dimensione minuscola (circa 300.000 abitanti in tutto), la limitata complessità dell'economia (trainata da pochi settori come la pesca e la produzione di alluminio) e la distanza, non solo geografica, dalle grandi e complicate dinamiche dell'economia globalizzata.
Chi invece (per il momento una sparuta minoranza) accetta di prendere in considerazione anche soluzioni alternative alla crisi del debito e per molti considerate "sacrileghe", come per esempio quelle di ristrutturazione, ancorché parziale e controllata, si limita alla considerazione abbastanza ovvia, ma non per questo meno valida, che un'economia in difficoltà ha maggiori possibilità di ripresa una volta liberatasi dalla zavorra di un debito troppo ingente. Su questo tema non ce la sentiamo di prendere posizione, ma solo di segnalare che esempi come quello islandese andrebbero analizzati approfonditamente, senza rifiuti dogmatici e aprioristici, formulando giudizi in base alle stime di danni economici e di sofferenze nel breve periodo, rispetto ai possibili vantaggi in termini di maggiore crescita economica nel medio-lungo termine.
Fonte:http://www.jcinvestimenti.it/il-caso-islanda-e-un-esempio-da-seguire_sb_50.html
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