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L’ufficio americano per l’immigrazione non è stato tenero con Imran Khan, l’ex giocatore pakistano di cricket sceso nell’arena politica con il suo “Movimento per la Giustizia”. Un interrogatorio fitto, lo scorso ottobre, su un unico, grande, argomento: la campagna militare a stelle e strisce nel Paese asiatico, condotta attraverso i famigerati droni, gli aerei senza pilota, comandati a distanza.
Khan è diventato il portavoce del malcontento diffuso ad Islamabad contro i ripetuti strike di Washington nelle aree tribali, alla caccia dei leader talibani e qaedisti. Due mesi fa l’ex campione ha guidato una marcia di protesta, seguito da 15.000 sostenitori e qualche decina di attivisti occidentali. Per motivi di sicurezza la carovana si è dovuta arrestare a Tank, alle soglie del Sud Waziristan, la regione in mano ai fondamentalisti, ma Khan ha deciso di fare dell’opposizione alla campagna americana – e alla complicità del presidente pakistano Zardari – il nucleo della sua piattaforma politica, in vista delle elezioni del prossimo anno.
Sotto l’amministrazione Obama il “mietitore” ha lavorato con sempre maggiore intensità. I droni sono la chiave della guerra “invisibile” al terrorismo lanciata dal Pentagono. Ma gli omicidi mirati, volti ad eliminare le pedine principali del network islamista, incontrano un’opposizione sempre crescente. In Pakistan l’opinione pubblica lamenta l’alto numero delle vittime civili, oltre alla cosante violazione della sovranità nazionale e alla passività di Zardari, per quanto l’atteggiamento di Islamabad nei confronti degli Stati Uniti sia sempre ambivalente. Dopo la missione Geronimo, che ha portato all’uccisione di Osama bin Laden – un’operazione della quale i pakistani sono rimasti all’oscuro – i rapporti si sono ulteriormente deteriorati.
È difficile valutare i “danni collaterali” della strategia americana, anche perché a ricercatori e media viene negato l’accesso alle aree tribali, ma alcune stime parlano di circa 3.000 morti dall’inizio delle operazioni all’interno del Paese, sotto George W. Bush. Si tratta soprattutto di militanti talebani e qaedisti, ma un sesto delle vittime è costituito da civili. Anche negli Stati Uniti si sono levate voci critiche, soprattutto da sinistra, per bocca delle organizzazioni per i diritti civili. Durante il primo mandato di Obama, in tutto il pianeta il mietitore ha lavorato senza sosta: sono stati lanciati 300 attacchi, con quasi 2.500 vittime. È naturale che simile cifre abbiano animato un dibattito su natura e regole di utilizzo dei droni e, più in generale, sulla strategia degli omicidi mirati. Si discute se essi rappresentino l’ultima ratio, nel caso di una minaccia imminente nei confronti degli Stati Uniti, o di uno strumento più flessibile, adattabile ad esigenze diverse, come la necessità di un governo alleato di colpire le reti terroristiche interne, sottraendo loro il controllo di una parte del territorio nazionale.
È sempre più forte nella West Wing presidenziale il bisogno di fissare regole standard per uno strumento chiave della politica estera. Un esercizio non facile, perché a Washington le posizioni sono divergenti, Pentagono e Cia spingono per un’interpretazione più larga, Ministero della Giustizia e Dipartimento di Stato vanno in direzione opposta.
Per anni gli Usa hanno espresso perplessità sugli omicidi mirati operati da Israele. La situazione è cambiata con l’11 settembre. Tanto Bush quanto Obama hanno affermato il diritto degli Stati Uniti, in guerra con al Qaeda, di difendersi dai terroristi ad ogni latitudine, colpendoli ovunque si trovassero. Lo scorso marzo in un incontro con gli studenti della Northwestern University di Chicago il ministro della Giustizia Eric Holder ha spiegato la coerenza con il diritto internazionale di guerra di queste operazioni, comprese quelle che prendono di mira cittadini americani, come Anwar al Awlaki, ucciso in Yemen nel settembre 2011: «Ci sono casi in cui il governo ha l’autorità, o meglio la responsabilità, di difendere il Paese con l’uso appropriato e legale di forza letale». Washington, sostiene Holder, ha il diritto di intervenire quando la minaccia di attacco è imminente e quando la cattura del terrorista non è possibile.
Un’inchiesta comparsa a fine maggio sulle pagine del New York Times ha descritto l’ispirazione della strategia obamiana – l’adesione alla teoria della “guerra giusta” – e le procedure operative: ogni settimana, durante gli incontri del Terror Tuesday, al presidente viene sottoposta una “kill list” di jihadisti da eliminare, stilata col contributo decisivo di John Brennan – consigliere per l’anti-terrorismo, appena nominato da Obama capo della Cia – al termine di un processo di selezione che, fra servizi segreti e Pentagono, coinvolge circa cento alti funzionari.
Negli ultimi anni, però, c’è stato un salto di quantità nel livello degli strike: non più solo i leader operativi di al Qaeda, impegnati nell’organizzazione di attentati contro l’America – la cui rete, soprattutto in Pakistan, si va destrutturando – ma i militanti delle varie sigle estremiste, in lotta con i propri governi, e che spesso controllano intere regioni, del Pakistan, della Somalia, dello Yemen. Di qui la necessità, sottolineata dallo stesso Obama, di un rule book formale sull’utilizzo dei droni. «Creare una struttura legale, con una serie di processi e di controlli sull’utilizzo delle unmanned weapons è una sfida per me e per i miei successori», ha dichiarato il presidente in un’intervista con Mark Bowden, autore del libro “La cattura”, dedicato all’uccisione di Osama bin Laden.
Le Nazioni Unite sono in allarme, tanto da avere pianificato l’apertura di un’inchiesta sull’operato di Washington. La questione sulla natura dei droni è cruciale, anche perché gli Usa stanno fissando un precedente, a cui potrebbero richiamarsi altre nazioni, che volessero utilizzare questi strumenti. Talmente cruciale che la bozza di rule book è circolata nelle varie agenzie dello spionaggio americano alla vecchia maniera, passando di mano in mano ed evitando i pericoli della comunicazione via mail. Petraeus docet.
Fonte: http://www.linkiesta.it/brennan-l-autore-delle-kill-list-ora-e-capo-della-cia
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