Di Leonardo Bianchi
Nell’immaginario
collettivo, i servizi segreti sono considerati il «grande orecchio»
della società, una congrega di pseudo-avventurieri con cappello,
bavero dell’impermeabile alzato, tendenza ad alcolismo/promiscuità
sessuale/eversione e il tasto pronto a inviare veline e dossier
calunniosi a giornalisti compiacenti, se non direttamente a libro
paga.
Nella
realtà non sempre è così. Nel suo ultimo saggio, Come
i servizi segreti usano i media,
lo studioso e ricercatore di storia contemporaneaAldo
Giannuli (già
consulente di diverse Procure e della Commissione Stragi) scrive:
L’immagine dei servizi è quella di un grande orecchio muto, che tutto ascolta e intercetta e tutto seppellisce in un immenso buco nero. Questo è parzialmente vero e, spesso, una mezza verità fa più danno di un’intera bugia. I servizi non sono solo antenne riceventi di informazioni, ma anche emittenti, e a pari merito. Nel mondo dell’informazione mandare messaggi è importante quanto riceverne: rinunciare a farlo equivale ad autoescludersi dal terreno dello scontro.
Insomma,
«i servizi segreti sono destinati a incrociare il cammino degli
organi di informazione perché la materia è inevitabilmente la
stessa». E per capire le mutazioni a cui può essere soggetto questo
cammino, possiamo ricorrere a tre scene.
Nella
prima siamo negli anni ’50 e ’60, in piena Guerra Fredda. In
qualche modo, la Cia riusciva a procurarsi la Pravda e
stamparne un’edizione in inglese per il Presidente statunitense –
il tutto prima che l’house
organ di
regime fosse ancora arrivato nelle edicole russe. Nella seconda ci
spostiamo nella prima metà degli anni 2000 a Roma, in via Nazionale
230, ufficio riservato dell’allora Direttore del Sismi Nicolò
Pollari. In quella cheRepubblica ha definito una
«fabbrica della disinformazione e intossicazione» lavorava Pio
Pompa, agente che aveva il preciso ordine di «raccattare ogni genere
di informazione, anche spazzatura», senza alcuna «distinzione o
cernita tra il vero, il verosimile, il falso». Il giornalista Renato
Farina (alias Betulla) conosceva
bene quell’ufficio.
Nella
terza scena, ambientata ai giorni nostri, ci troviamo dentro un
palazzo di un’anonima zona industriale della Virginia. Qui un team
di analisti – ribattezzati dai loro colleghi della Cia «topi da
biblioteca vendicativi» – compulsa milioni
di tweet, post di Facebook, siti, chat e qualsiasi tipo di dato
reperibile sul web (e in tutte le lingue), li incrocia con giornali
nazionali/internazionali e intercettazioni, li assembla e infine
spedisce il risultato della ricerca ai piani alti della Casa Bianca.
Il
primo caso è il passato remoto dei servizi segreti. Il secondo è
una classica tecnica d’intelligence – controllo e «intossicazione
ambientale» dei media. L’ultimo è il presente – e il futuro –
dell’Osint (Open
Source Intelligence),
ossia l’intelligence fatta
attraverso l’esame delle fonti aperte, che non necessariamente sono
gratuite o ottenibili legalmente. È quella che Aldo Giannuli
definisce «una rivoluzione copernicana nel mondo dello spionaggio».
Nata
come disciplina residuale (il ragionamento era: «se una notizia è
di dominio pubblico è come se non esistesse perché, appunto,
conosciuta da tutti»), l’Osint acquista rilevanza nei primi anni
’50, per poi esplodere a partire dagli anni ’90 con l’avvento
di Internet. La disciplina è andata via via affrancandosi «dalla
sua origine strettamente militare», fino a estendere il proprio
campo di osservazione «alla politica interna, all’economia, alla
società, alla cultura».
Un
ruolo fondamentale in questa evoluzione lo hanno giocato anche
fattori di tipo economico. Le forme più tradizionali dello
spionaggio – pedinamenti, rapporti confidenziali, intercettazioni,
perquisizioni, ecc. – sono ormai riservate a scopi mirati, a quando
si cerca di ottenere «determinate notizie di notevole contenuto
informativo e non accessibili diversamente». La «base di insieme
dell’analisi – spiega Giannuli – è ricavata da un’attività
decisamente meno costosa di Osint». Insomma, «la Cenerentola degli
scorsi decenni è [...] diventata la regina dell’intelligence».
Ma
come funziona concretamente questa disciplina? Anzitutto, a
differenza di tutte le altre branche dell’intelligence,
«l’Osint non lavora in condizioni di scarsità di informazioni, ma
al contrario di ridondanza». Quello che conta, dunque, non è il
materiale su cui si opera, ma la sua interpretazione: «all’Osint
tocca il compito di fornire il quadro complessivo di riferimento […]
in cui inserire le informazioni da fonti coperte».
Per
ricostruire il «quadro complessivo» servirà dunque «costruire una
griglia di fonti da seguire più o meno regolarmente e, solo
eccezionalmente, considerare anche fonti occasionali. Quindi, prima
di tutto, bisogna conoscere bene le fonti tra cui si sceglie. E non è
detto che si debbano seguire solo quelle più autorevoli e
blasonate». SecondoGiovanni
Nacci (esperto
in metodi, sistemi e tecnologie per l’Open
Source Intelligence)
«l’aspetto più rivoluzionario della dottrina Osint» è proprio
questo: «non serve conoscere “tutte” le informazioni disponibili
su “tutti” gli argomenti, è invece indispensabile conoscere
chi conosce.
Sapere cioèchi, dove, quando e come può
metterci in relazione con l’informazione di cui abbiamo bisogno,
oppure con quelle risorse che potenzialmente sono in grado di farlo».
Un
simile procedimento si avvicina a quello giornalistico (soprattutto
d’analisi). Tuttavia, essendo nata in ambiente militare l’Osint
mantiene un’impostazione legata a «rigidi protocolli
predeterminati». Ad avviso di Giannuli questa rigidità non è uno
svantaggio, anzi: «abitua a dare ordine logico al processo» e
permette di incrociare e integrare immediatamente i dati dei vari
operatori.
Lo
studioso ritiene inoltre che i metodi dell’Osint, grazie alla loro
elasticità, abbiano «da insegnare qualcosa anche al lettore di
quotidiani o allo spettatore televisivo». Ed infatti nell’ultima
parte del libro (a mio parere la più interessante), Giannuli prova a
leggere una serie di notizie, dal caso Bisignani alla morte di Bin
Laden, con le lenti di un analista dei servizi. Il risultato è una
serie di articoli estremamente approfonditi che permettono di
apprezzare i veri valori aggiunti dell’Osint: l’interpretazione e
la contestualizzazione. Da un lancio di agenzia piuttosto anonimo
(come ad esempio quello sulle «terre rare» cinesi) si può arrivare
a sviscerare la politica industriale e hi-tech delle grandi potenze
mondiali.
E
qui arriviamo al punto. Come si rapportano, o rapporteranno, i
servizi agli sconvolgimenti in corso nel mondo del giornalismo? «Il
giornalismo è già cambiato parecchie volte – argomenta Giannuli a
Valigia Blu – In questi cambiamenti passava però lo spazio di una
generazione, quindi erano in qualche modo digeriti e assorbiti con
una certa gradualità. Ora le ondate di cambiamento sono diventate
così ravvicinate da produrre effetti imprevedibili. Non c’è più
l’effetto digestione grazie alla quale la novità è assimilata,
sedimenta una professionalità diversa, viene osservata e a sua volta
i servizi producono una professionalità diversa nel consumo di
notizie. Per fare un esempio: il volumetto sull’Osint della Nato
che io cito nel libro è stato elaborato circa 6-7 anni fa. Ormai è
da buttare via e da rifare».
In
tutto ciò, Giannuli crede che «i servizi ci metteranno la “manina”.
Però, come al solito, preferiranno guardare alle centrali, le fonti
e le agenzie di stampa: i “rubinetti” dell’informazione». Di
fronte anche all’impoverimento economico del giornalismo, lo
studioso non teme però il ripetersi seriale di nuovi casi «Betulla»:
«I servizi sono molto più avari di quello che sembra, e hanno a
loro volta dei problemi di contabilità. Non è che i servizi siano
più ricchi degli editori. Il problema vero è che le tecnologie
rendono sempre meno necessaria la forza lavoro umana anche in questo
campo».
Come
dimostra l’ultimo capitolo del libro, l’Osint e il giornalismo si
possono compenetrare – e in un certo senso lo stanno già facendo.
Sia l’analista che il giornalista si vedono costretti a rimodellare
la propria professione. Gli interlocutori finali sono diversi (ma non
in tutti i casi): lettori da una parte, autorità politiche e
militari dall’altra. La premessa di partenza, però, è la stessa –
evitare di soccombere all’«overload»
informativo. E anche l’obiettivo è più o meno identico: fornire
il senso complessivo delle notizie.
Una
funzione, quest’ultima, che i media sembrano aver accantonato da
molto tempo, e che paradossalmente potrebbero recuperare sfruttando
il metodo di chi ha sempre cercato di manipolarli, influenzarli e
corromperli.
(Illustrazione: Pawel
Kuczynski)
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