Di Tommaso Regazzo
È
possibile che un libro scritto quasi trent'anni fa, in piena guerra
fredda, sia ancora oggi attuale? Sì, se parliamo del testo Lo
stato e la guerra. L'insensatezza delle politiche di potenza (Gandhi
Edizioni, Pisa, 2008, pagg. 352, € 30,00) dello storico tedesco
Ekkehart Krippendorff, che in esso ricostruisce la genealogia dei
legami tra eserciti, stati e guerre, attraverso un'analisi
storico-politica che parte dall'antichità e arriva agli anni '80 del
'900, passando per l'epoca medioevale. “Sono così arrivato
necessariamente al vero
oggetto della questione sulla guerra (corsivo
dell'autore), vale a dire il potere nato dalla violenza e tutelato
militarmente, con il monopolio dell'uso della forza, lo stato”1.
Questa è la conclusione finale dell'autore, il quale pur non
partendo da una prospettiva di ricerca anarchica, approda ad essa nel
corso del suo lavoro.
Krippendorff, avvalendosi non solo delle sue competenze di storico ma utilizzando anche le riflessioni di letterati e filosofi, tra cui Tolstoj, Nietzsche e Goethe, sostiene la tesi per cui l'esistenza degli Stati, ma più in generale di ogni forma di dominio politico strutturale e permanente, dipende dalla presenza di forze militari istituzionalizzate, e non viceversa. L'atto di violenza originaria insomma, genera gerarchia e dominio, che a loro volta rigenerano sé stesse attraverso la guerra e le svariate forme che essa assume.
E se queste considerazioni sono ovvie per molti libertari e anarchici, non è invece di poco conto che questa prospettiva entri a far parte del dibattito “accademico” delle relazioni internazionali, solitamente imbevute di realpolitik hegeliana-weberiana. Ma torniamo al libro.
Nei primi capitoli, incentrati sul XIX e sul XX secolo, vengono analizzate la politica di potenza e la ragion di stato, interpretate come politiche astratte, senza fini definiti o precisi, o peggio con fini di conquista, realizzate continuamente a discapito della popolazione. E a tal proposito, sebbene Krippendorff prediliga una analisi strutturalista, viene pure evidenziato l'ordine simbolico e culturale che le sorregge e reifica.
Successivamente l'autore si sofferma sul ruolo delle forze armate in alcuni dei principali momenti di cambiamento politico dello scenario internazionale dell'epoca moderna: la rivoluzione statunitense e quella russa. In esse ravvisa come le forze armate, da rivoluzionarie che erano per pratiche e idee, diventino reazionarie e repressive quando le briglie dello stato le fagocitano e le istituzionalizzano, attraverso un complesso procedimento giuridico-istituzionale e culturale, che ne svilisce lo slancio sociale di liberazione.
I capitoli seguenti procedendo a ritroso nella storia, considerano lo stesso tipo di dinamiche, calate in contesti antecedenti: l'impero romano, il medioevo e il periodo successivo all'accordo di Westfalia. Viene ricostruita quindi, con le debite differenze inerenti ai vari momenti storici, l'evoluzione della violenza da affare privato da vendere al miglior offerente (si pensi ai mercenari, ai lanzichenecchi, etc.) a violenza statalizzata al servizio dei governi.
Per chiudere, non si può non sottolineare la fervida ironia, ai limiti del sarcasmo, con cui l'autore ricostruisce, nel corso delle quasi 400 pagine del libro, l'idiozia e la ridicolaggine di alcuni personaggi e momenti storici ritenuti “intoccabili e mitici” dalla storiografia classica delle relazioni internazionali. Da Bismarck, che giudica le persone secondo la reazione del suo cane, alla sgangherata banda della Mano Nera, che riuscì ad uccidere l'arciduca Francesco Ferdinando dopo mille buffe disavventure: finalmente abbiamo una storiografia che smonta la pretesa grandezza e ragionevolezza della ragion di stato e della politica estera di potenza. Un valore aggiunto insomma per un libro che si presenta come un classico del pensiero pacifista e che si caratterizza per il tentativo di detronizzare la storia internazionale per come ce l'hanno raccontata sino ad ora.
Krippendorff, avvalendosi non solo delle sue competenze di storico ma utilizzando anche le riflessioni di letterati e filosofi, tra cui Tolstoj, Nietzsche e Goethe, sostiene la tesi per cui l'esistenza degli Stati, ma più in generale di ogni forma di dominio politico strutturale e permanente, dipende dalla presenza di forze militari istituzionalizzate, e non viceversa. L'atto di violenza originaria insomma, genera gerarchia e dominio, che a loro volta rigenerano sé stesse attraverso la guerra e le svariate forme che essa assume.
E se queste considerazioni sono ovvie per molti libertari e anarchici, non è invece di poco conto che questa prospettiva entri a far parte del dibattito “accademico” delle relazioni internazionali, solitamente imbevute di realpolitik hegeliana-weberiana. Ma torniamo al libro.
Nei primi capitoli, incentrati sul XIX e sul XX secolo, vengono analizzate la politica di potenza e la ragion di stato, interpretate come politiche astratte, senza fini definiti o precisi, o peggio con fini di conquista, realizzate continuamente a discapito della popolazione. E a tal proposito, sebbene Krippendorff prediliga una analisi strutturalista, viene pure evidenziato l'ordine simbolico e culturale che le sorregge e reifica.
Successivamente l'autore si sofferma sul ruolo delle forze armate in alcuni dei principali momenti di cambiamento politico dello scenario internazionale dell'epoca moderna: la rivoluzione statunitense e quella russa. In esse ravvisa come le forze armate, da rivoluzionarie che erano per pratiche e idee, diventino reazionarie e repressive quando le briglie dello stato le fagocitano e le istituzionalizzano, attraverso un complesso procedimento giuridico-istituzionale e culturale, che ne svilisce lo slancio sociale di liberazione.
I capitoli seguenti procedendo a ritroso nella storia, considerano lo stesso tipo di dinamiche, calate in contesti antecedenti: l'impero romano, il medioevo e il periodo successivo all'accordo di Westfalia. Viene ricostruita quindi, con le debite differenze inerenti ai vari momenti storici, l'evoluzione della violenza da affare privato da vendere al miglior offerente (si pensi ai mercenari, ai lanzichenecchi, etc.) a violenza statalizzata al servizio dei governi.
Per chiudere, non si può non sottolineare la fervida ironia, ai limiti del sarcasmo, con cui l'autore ricostruisce, nel corso delle quasi 400 pagine del libro, l'idiozia e la ridicolaggine di alcuni personaggi e momenti storici ritenuti “intoccabili e mitici” dalla storiografia classica delle relazioni internazionali. Da Bismarck, che giudica le persone secondo la reazione del suo cane, alla sgangherata banda della Mano Nera, che riuscì ad uccidere l'arciduca Francesco Ferdinando dopo mille buffe disavventure: finalmente abbiamo una storiografia che smonta la pretesa grandezza e ragionevolezza della ragion di stato e della politica estera di potenza. Un valore aggiunto insomma per un libro che si presenta come un classico del pensiero pacifista e che si caratterizza per il tentativo di detronizzare la storia internazionale per come ce l'hanno raccontata sino ad ora.
1.
Ekkehart Krippendorff, Lo
stato e la guerra. L'insensatezza delle politiche di potenza,
Gandhi Edizioni, Pisa, 2008, pp. 19, 20.
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