Luigi Zingales:L’austerity recessiva è figlia dell’Europa dello status quo
Di Marco Valerio Lo Prete
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“L’austerity in salsa europea, quella tutta tasse e pareggio di bilancio contabile, è esattamente la politica economica che ci si può attendere dai fautori dello status quo”. E’ questa la tesi di Luigi Zingales, docente di Impresa e finanza alla Booth School of Business dell’Università di Chicago. Perciò l’economista, in una conversazione con il Foglio, non si dice sorpreso del giudizio negativo espresso due giorni fa dal Wall Street Journal sulle politiche economiche del continente: “La solita vecchia austerity europea”, era il titolo dell’editoriale del quotidiano americano, fautore dello snellimento dello stato ma contrario alla piega recessiva che il rigorismo ha preso in Europa. Le recenti leggi finanziarie di Grecia, Spagna e Francia sarebbero accomunate dall’ “enfasi sulla necessità di alimentare lo stato piuttosto che su quella di far crescere l’economia”, a costo di “saccheggiare l’economia privata”.
“Parlando dell’Italia, direi che la reprimenda dei liberali americani è giustificata”, osserva Zingales. “Certo, tagliare la spesa pubblica in maniera ponderata richiede tempo, e quindi si può capire che il governo di Mario Monti, chiamato nel pieno di un’emergenza finanziaria, abbia previsto all’inizio un aumento delle entrate fiscali. Ciò che demoralizza è che sul fronte della limatura delle uscite procediamo ancora in maniera così lenta”. L’economista cita come esempio la “fase due” della spending review del commissario governativo Enrico Bondi, arenatasi – pare – tra ministeri e burocrazie, e poi richiama un caso più simbolico: “Negli Stati Uniti, dopo la crisi, si è deciso che gli ex presidenti non hanno più diritto alla scorta a vita. Il fatto che il governo italiano non abbia la forza di compiere un gesto così piccolo e popolare dice molto della situazione”. A fronte di tanta incertezza, però, il compito di Roma resta titanico: “Fronteggiamo un problema demografico strutturale, con una forza lavoro che diminuisce e un numero di pensionati che aumenta. Già questo, di per sé, richiederebbe un nuovo patto sociale. Che preveda, per dire, che gli aumenti delle pensioni e dei salari non siano più indicizzati rispetto all’inflazione, ma alla crescita del pil reale”.
Competitività dei lavoratori o dei manager?
Zingales, che assieme a Oscar Giannino, Carlo Stagnaro e Michele Boldrin ha fondato l’associazione politica “Fermare il Declino”, prende poi in esame un altro dossier sul quale oggi il governo intende misurarsi, quello della competitività. “Occorre ridurre il costo del lavoro per unità di prodotto, si dice, e la ricetta, stando alle uscite del premier, sembrerebbe essere quella di una compressione dei salari”. Zingales, da liberista doc, non è completamente d’accordo: “Meglio iniziare a chiedersi: com’è possibile che il nostro costo del lavoro sia così elevato, quando i nostri salari sono così bassi? Il primo motivo è il cuneo fiscale, dovuto al fatto che il nostro stato si appropria di una quota maggiore del prodotto per pagare gli sprechi del sistema. Poi c’è il problema della produttività, dovuto a un sistema educativo poco competitivo, ma in buona parte anche a un management mediamente tra i peggiori dei paesi avanzati”. E’ qui che la soluzione del liberista differisce dal luogo comune che si attribuisce ai fautori dell’austerity: si parla sempre di lavoratori poco flessibili o troppo protetti, ma perché non affrontare anche le posizioni di rendita di certa classe dirigente? Gli esempi non mancano: “Fonsai è arrivata sull’orlo del fallimento non perché i suoi dipendenti guadagnavano troppo, ma perché la società era gestita da manager incompetenti”. Per non parlare degli “incroci azionari” che ingessano il tutto: “La Premafin di Ligresti controllava Fonsai e allo stesso tempo contribuiva a decidere il management di Mediobanca, cioè del principale azionista di Generali che a sua volta era il principale concorrente di Fonsai. Queste posizioni di monopolio frenano l’economia nel complesso e hanno un impatto negativo per le imprese stesse. Fiat oggi è in difficoltà anche perché a lungo la concorrenza è stata tenuta fuori dal paese”. Non che al governo o alle authority manchino gli strumenti d’intervento: “Negli Stati Uniti queste lunghe e tortuose catene azionarie non esistono. Perché non introdurre anche qui il principio della doppia tassazione dei dividendi che scoraggia questo tipo di organizzazione societaria? Si potrebbe cancellare il credito d’imposta sui dividendi per le società non controllate da un singolo azionista”.
Zingales, autore di “Salvare il capitalismo dai capitalisti” (scritto con Raghuram Rajan nel 2003) e di “Manifesto capitalista” (appena uscito per Rizzoli), propone dunque di aumentare trasparenza e competitività nel sistema, non solo per taxi e farmacie. In tutta Europa, effettivamente, si procede in un altro senso, a partire dall’aumento delle tasse appena approvato in Francia: “François Hollande si è candidato con questa piattaforma di politica economica, ha il diritto di perseguirla”, dice l’editorialista del Sole 24 Ore. “Anche se sono all’opposto ideale delle sue scelte, gli riconosco una dignità intellettuale”. A chi non la riconosce, dunque, al premier italiano? “Monti ha avuto poco tempo per governare, e riconosce che riforme drastiche le può fare un governo politico sostenuto da una maggioranza nuova. Per questo la sua dichiarazione della scorsa settimana, quella sulla personale disponibilità a dare un contributo in futuro, va letta in realtà come un messaggio rassicurante ai mercati e niente di più”. Il problema, conclude Zingales, è costituito piuttosto “da tutti i personaggi che si sono avventati sull’agenda Monti così com’è oggi, vaga ed emergenziale. Questi personaggi, parlando di Monti-bis, rifiutano in realtà le riforme più utili, quelle per rendere finanziariamente sostenibili i nostri apparati pubblici elefantiaci e per iniettare concorrenza a tutti i livelli. Quelli del Monti-Bis ‘a prescindere’, oggi, sono espressione del vuoto ideologico italiano. L’austerity all’europea è frutto della loro incapacità di scelte coraggiose”. Tra di loro, però, oltre ai centristi Pier Ferdinando Casini (Udc) e Gianfranco Fini (Fli), ci sono Luca di Montezemolo e ItaliaFutura con i quali Fermare il Declino (FiD) dialoga: “Mi scusi, ma un’azienda che va male cosa fa? Prima cerca di tagliare le spese, poi se i risultati non arrivano manda via il management. In Italia siamo alla fase uno – conclude Zingales – e ora il management non se ne vuole andare. Noi di FiD guardiamo ai programmi, ma l’archiviazione dell’attuale classe dirigente resta una condizione necessaria. Anche ItaliaFutura finora l’ha pensata così, in futuro vedremo”.
Fonte:http://www.ilfoglio.it/soloqui/15165
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