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Elegia per Alexandre che sulle strade asfaltate di Imola cercava la sua savana. Ed è morta
“La giraffa ha il cuore / lontano dai pensieri. / Si è innamorata ieri / e ancora non lo sa” (Stefano Benni)
“Mi vergogno molto, io – umano” (Wislawa Szymborska, “Gli animali del circo”)
Il suo cuore era piccolo – dicono. E la sua paura grandissima: una paura sconfinata come l’idea della savana – e questo è sicuro: la paura è nelle foto che raccontano della sua poca libertà e della sua mite furia e della sua triste uccisione. E’ piccolo il cuore di una giraffa, ed è misterioso: quei dodici chili miracolosamente sospesi, come il soffio vitale della bestia che abita nell’Ecclesiaste, lì a metà del suo corpo smisurato, a più di due metri dal cervello.
Ed è un mistero, il cuore della giraffa: di come vada il suo sangue, di come il suo sangue salga. E’ un cuore che sobbalza spesso, quello della giraffa: un cuore all’erta, un cuore sempre sul limitare di una fuga – e chissà che tumulto, dentro quel cuore, quando, raccontano certe leggende, vide per prima la terra dall’arca dopo il diluvio. Ha lo sguardo lungo, la giraffa – giunge fin dove il nostro sguardo solo domani arriverà. Forse per questo il suo cuore trema sempre: come quello di una sentinella biblica che sa a che punto può arrivare la nostra notte. Si sognano poco le giraffe. Non ne parlano né poeti né psicanalisti. In genere, nei sogni siamo sempre aquile. O tigri temerarie. O topini spaventati. Con il cuore che batte per rabbia o terrore o (magari) per amore. Ma ecco, giraffe mai. Dovremmo sognare più spesso la giraffa. Dovremmo sognare la giraffa uccisa a Imola. E dovremmo, come successe alla grande poetessa polacca davanti a un malvagio spettacolo di animali in un circo, vergognarci molto – noi umani.
(“Il funzionamento del cuore e del sistema circolatorio della giraffa, che conducono il sangue contro la gravità a un’altezza così notevole al di sopra del cuore, si dimostrò abbastanza sorprendente quando ci si pensò”. James V. Warren, “La fisiologia della giraffa”. Scientific American, febbraio 1975). Un cuore piccolo e complicato e tremante. A volte, purtroppo, non così piccolo – e sciaguratamente non tremante – come quello degli uomini: ché certi di noi (a proporzione, a saggio di Scientific American, a pretesa ingordigia teologica) il cuore piccolo non hanno – ma rattrappito sì, essiccato e svuotato (come di mummia egizia, come di sacrificale mummmia incas), con sordo battito di frusta. Un cuore tragicamente abitudinario. Così, tra pochi giorni nessuno avrà più nella testa e negli occhi la disperata e meravigliosa fuga di Alexandre – quel suo percuotere di zoccoli a terra (macché terra: è cemento, è asfalto; mica terra, mica erba) e quel suo lanciare sguardi intorno al mondo circostante: figurine umane, macchinine insignificanti, insegne abbaglianti – il mondo circostante che la imprigionava, che la legava, che la cacciava, tutta una vita a fare la preda, preda anche per gli occhi degli spettatori – alla cassa, signori, se volete vedere una creatura rubata alla sua esistenza! alla cassa! – su quella striminzita pista di circo, dentro l’oscena gabbia. Un mondo senza meraviglie – quasi incapace di concepire la meraviglia, di riconoscerla persino – ha messo dietro le sbarre e nelle mani di un domatore la sua breve, infelice vita. Ciò che ad Alexandre è stato da noi fatto dovrebbe causare ben e più infinita vergogna; ciò che la piccola giraffa è stata capace di fare di se stessa dovrebbe riempire di stupore e ammirazione. Resiste, corre, non si arrende – il suo cuore matto e frenetico in modo quasi magico ha elaborato l’unica via di fuga rimasta. Non è vero che il cuore e il cervello faticano a comunicare: certi sì, ma non il suo cuore e il suo cervello – e anzi il suo cuore ha chiaramente detto al suo cervello cosa fare: non consegnarsi mai più da prigioniera, non rientrare mai più nella gabbia, non accettare mai più corde alle gambe e al collo. Fare l’unica scelta che a un essere ferito o stanco o impaurito – e libero e fiero e intelligente – è concessa: sottrarsi ai sequestratori sottraendosi alla propria vita. Quasi come Thelma e Louise, Alexandre – davanti a quel fottuto Gran Canyon, e peggio ancora, anzi: ché qui non c’è cielo, non c’è spazio, non c’è aria. Quasi come l’alchimista Zenone che non vuole restare nelle mani dell’inquisizione – faccio della mia vita quello che voglio io, perché non ne facciate più quello che volete voi. Come certi cani che si lasciano morire quando il loro padrone (padrone: buffo come le parole mutino nel mutare del contesto) è già morto. Così, cuore, smetti di battere di paura. Smetti di pompare sangue solo per avidità e stupidità altrui. Occhi, smettete di cercare: non è qui la savana, ho capito non la troverò dietro quel palazzo, non la troverò più, non basta sfuggire allo stralunato poliziotto che mi corre davanti…
Bisogna vederle bene, quelle foto che raccontano la pubblica agonia di Alexandre. Fare i conti con la sua bella furia, confrontarla con il misero apparato di carabine per sparare sonniferi e corde e gabbie e carabinieri (pare una battuta: una gazzella dei cc che insegue una giraffa) e passanti incuriositi e il furgone giallo dei carcerieri legittimati a riprenderla e un paesaggio desolante di mestizia urbana. Avete visto, guardate bene!, quelle gambe lunghissime e quel collo smisurato? E l’arcipelago sulla sua pelle? Cinque metri, cinque metri e mezzo. Noi umani non sappiamo sfiorare il cielo così. Come fa a stare in una gabbia, a ciondolare su un’insignificante pista, come fa la sua testa che da qualche parte ha memorizzato un mondo sconfinato a resistere a luci e musiche? E allora, sul piazzale di un fottuto supermercato, fottutissimi capannoni, Alexandre ha preso la rincorsa – cuore a molla, sangue e cervello e cuore, zoccoli che cercano disperatamente e fino alla fine erba e terra, gli alberi così minuscoli, insignificanti – come si può vivere così? E gente che urla e sbirri che fronteggiano e sequestratori che si rifanno avanti… Lassù, gli occhi della giraffa vedono ciò che certo riconoscono: le corde, le sbarre, le voci umane così spaventevoli. Sono sopra a tutto, i suoi occhi – e tutto vedono: sentinella di se stessa, della sua notte che sta per ricominciare. Tutti pigiano addosso: sulla sua pelle con i disegni di mosaici misteriosi (che forse i suoi simili sanno leggere e decifrare: c’è forse il nome, lì? il creatore ha forse scritto lì il suo destino?), sul suo corpo sghembo e gigantesco e innocuo – quel suo corpo che ha percorso la terra prima che l’uomo ci fosse, e che ci sarà quando l’ultimo uomo sarà ormai andato via. E’ divina: ci ha preceduti e ci seguirà. Respira, respira, respira: è come un vento, ora, il suo respiro. (“La giraffa risolve questo problema con un’iperventilazione, respirando più profondamente e più liberamente dell’uomo. Si è scoperto che le giraffe, anche in riposo, hanno un numero di respiri al minuto maggiore di 20, mentre il valore corrispondente nell’uomo varia tra 12 e 15”). Esistono certo le lacrime della giraffa: basta guardare quelle foto, per accorgersene. C’è uno stupore (ma dove sarà la savana, dove poter correre e scappare e nascondersi? dove l’hanno messa, la savana?) che foto dopo foto sconfina nel dolore, poi quel dolore diventa abbandono – e forse un guizzo, un ultimo guizzo, sarebbe bello che fosse il sorriso della giraffa: pensare di avercela fatta ancora una volta, e invece no, non sarà così, inutile farsi illusioni. “Le vostre stupide carabine, le vostre stupide divise, le vostre stupide macchinine, i vostri stupidi capannoni, i vostri stupidi telefonini, con i quali ora mi rubate per l’ultima volta, la morte dopo la vita: qui, su questo merdoso piazzale, io che sarei morta nel silenzio sconfinato… Ora so come non avere più paura di voi…”. Un poliziotto pietoso (unico gesto di pietà) allunga una carezza sulla testa fiera e ora china. Cade addosso a una rete, le gambe che sembrano rami spezzati di un albero gigantesco. Si rialza con fatica. Tutto gira attorno, aghi con strani fiocchi colorati infilati nella pelle, gli occhi aperti a fatica, le gambe si piegano ancora: la bestia è umiliata, a terra, la sua tonnellata di peso che cede, come un bosco che di colpo sprofonda, cercano di spingerla verso una gabbia, mani che si agitano minacciose intorno, il respiro sempre più forte – vento, vento, vento; il cuore è ormai impazzito – vento, vento, vento; la pressione sanguigna sembra lacerare la mappa misteriosa della pelle, ogni pezzo del mosaico che pare volare verso il cielo – vento tra le corna morbide, vento tra le gambe smisurate, vento sulla lingua viola… C’è una foto raccapricciante: una piccola folla grottesca con apporto di carabinieri e poliziotti e polizia provinciale (ma chi dovevano prendere, Bin Laden?) cerca di spintonare la spaventatissima giraffa dentro un camion, schiacciandole addosso delle pedane di legno. Più in là, qualcuno allunga una scala e imprigiona il suo bellissimo collo, appena al di sotto della testa. Al centro, un uomo con una corda in mano. E’ quella scala (come un cappio, ulteriore prepotenza tra già innumerevoli prepotenze) il centro del disagio che questa foto genera: guardate gli occhi della giraffa, il suo ultimo sguardo – sta per morire: è perso, stremato, con la scala che chiude la gola, quelle pedane di legno che chiudono il petto, gli urli che chiudono il cuore. Succede di morire inaspettatamente, a uomini e bestie; ma succede anche a volte di capire che non c’è altra scelta – l’unica libertà che rimane, la libertà che ci piace credere che Alexandre si sia presa. L’unica strada rimasta aperta verso la savana. Un suicidio, l’estremo atto della sua libertà confiscata, finirebbe col renderci ancora più vergognosi. Per capire bisognerebbe essere sempre forti e dolenti come Anna Maria Ortese con la cagnetta Laika, quella spedita a perdersi e a morire tra le stelle. “Ritorna! E perdonaci!” – le scriveva. Ecco, Alexandre, che tornare non puoi (e certo tornare tra noi non vuoi): se esiste una savana come il nostro fantasioso paradiso, e corri adesso senza il terrore delle corde e delle sbarre, il cuore che finalmente danza lieve senza sbandare – ecco, anche tu, perdonaci.
Se Alexandre ha scelto di morire – lasciando andare via per sempre il battito doloroso, ritrovando infine quella sorta di leggerezza che si scopre quando la paura è così forte che è ormai inutile avere paura – ha fatto bene. Si è difesa con l’unica arma che tante volte resta ai più indifesi e deboli. Del resto, cosa ha mai perso, quaggiù? Le stupide esibizioni sotto il tendone – quella pena di bestie umiliate e costrette a gesti innaturali, la ferocia della frusta che schiocca, quell’apparenza di divertimento che nasconde un lungo abuso su creature ridotte a prede da addomesticare. Deve far passerella sotto le luci una giraffa? Inchinarsi un elefante? Stare su uno sgabello una tigre? Un ergastolo e una catena indistruttibile, per queste bestie degli spazi sconfinati che noi facciamo fatica anche solo a immaginare, create per corse di chilometri e chilometri, solo vento e cielo intorno. Si può dare senso a una vita tra le sbarre – a instupidirsi in gesti replicati uguali per anni e anni: mai la possibilità di ritrovare la libertà, mai un po’ di misericordia per loro?
Cosa c’è di educativo nella paura di una furibonda tigre? Nella giraffa immensa che quasi non può allungare le gambe? Nella prigionia di un maestoso elefante? Da quale sprofondo della nostra insensibilità arriva questa pacifica e colpevole indifferenza, come possa resistere e come possiamo con essa convivere, resta un mistero – “il dolore degli altri è sempre dolore a metà”, come nella canzone di De André, e viene da pensare: il dolore di tutte le altre creature, oltre al nostro. Eravamo solo i custodi, siamo diventati i saccheggiatori. Wislawa Szymborska vide una volta al circo orsi battere le zampe, scimmie in bicicletta, leoni che saltavano il fuoco, elefanti con il vaso in testa, cagnolini ballare. E appunto vergogna, come essere umano, la poetessa premio Nobel provò. “Divertimento pessimo quel giorno: / gli applausi scrociavano a cascata, / benché la mano più lunga di una frusta / gettasse sulla sabbia un’ombra affilata”. Come incomprensibile appare la sorprendente mestizia estiva di Rai Tre, che sempre fa la colta e l’intelligente, infarcita di polverosi e frastornanti e crudeli spettacoli circensi, sagra paesana luccicante: ma la frusta s’intravede, dietro le luci che sfavillano…
Forse, l’irrompere nel nostro quotidiano di una bestia in fuga – sono così tante: da inutili zoo, da scannatoi legali: una mucca, per sfuggire al macello, è scappata dentro un ospedale – e una bestia in fuga è sempre un bellissimo (immeritato) dono alla nostra scarsa fantasia e al nostro faticoso stupore. Una bestia in fuga ha una sorta di forza divina e di bellezza indecifrabile: sfuggire alle sbarre, alla frusta, al coltello dello scannatore. E’ come provare a ristabile un minimo di ordine, una logica, almeno un piccolo principio di pietà – in un mondo dove spesso ordine e logica e pietà sembrano confondersi e scomparire: è la sentinella che urla al buio che ci avvolge. Come il cervo con la croce tra le corna che appare a sant’Eustachio – pagano e cacciatore – nel dipinto di Pisanello: e intorno a lui lepri e cerbiatti e orsi e gru e uccelli: le vittime di quell’uomo che la sua apparizione ora blocca. C’è sempre modo, del resto, di cavare un insegnamento. Si è visto un filmato dove un maialino salva una capretta che sta per affogare: osservate e valutate altre immagini di questi giorni, dove l’umano malamente si faceva porco, quasi una riprova dell’indiscussa superiorità di buongusto e civiltà della nobile razza suina.
Sarebbe bello che qualcosa restasse, dell’ultima corsa e della spaventosa morte della giraffa Alexandre. Si potrebbe fare così: in autunno, sicuro come ogni anno, ripartirà la protesta studentesca. Buone o sbagliate che siano le ragioni, di solito i ragazzi hanno bella fantasia nello scegliere il nome del loro (annuale) movimento. Che una volta prese il nome di Pantera – essendo stata a lungo avvistata, forse davvero, forse leggenda metropolitana, una pantera nei dintorni di Roma. Non fu, per fortuna, mai catturata. O forse non è mai esistita, ma è stata capace di accendere la fantasia.
La giraffa di Imola invece è esistita davvero, e davvero ha avuto paura e morte davanti ai nostri occhi. Perché voleva scappare, perché cercava la savana che noi le avevamo rubato. La bellezza della sua fuga è stata una bellezza piena, di cuore e di sguardi, e una fenomenale lezione di vita – e quando ha ceduto lo ha fatto eroicamente, senza più permettere a qualcuno di legarla. Ecco, come c’era il Movimento della Pantera, adesso si potrebbe far nascere il Movimento della Giraffa (ancora “un sogno che ti assolve per un breve istante” – sempre W. S.). Così che possa continuare ancora a lungo la corsa inviolabile e magnifica di Alexandre – la Giraffa che voleva essere libera, o almeno libera di morire.
Fonte: http://www.ilfoglio.it/soloqui/15129
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=10889
http://illupodeicieli.blogspot.it/2012/10/la-giraffa-della-liberta.html
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