Addio a Eric Hobsbawm, lo storico del «Secolo breve»
Di Antonio Carioti
Era un cosmopolita per vocazione Eric Hobsbawm, il grande storico britannico scomparso in un ospedale di Londra all’età di 95 anni. E aveva attraversato le tempeste del XX secolo assorbendone tutti gli umori, come emerge dalla sua bella autobiografia “Anni interessanti” (Rizzoli, 2002).
Era nato ad Alessandria d’Egitto nel 1917 e il suo stesso cognome era frutto di una curiosa ibridazione tra la cultura tedesca dei suoi genitori ebrei e l’amministrazione coloniale britannica. Suo padre si chiamava infatti Leopold Obstbaum, ma da un errore di trascrizione dell’anagrafe ne era risultata la curiosa grafia anglicizzata Hobsbawm.
Cresciuto a Vienna e poi nella Berlino sul punto di cadere nelle mani dei nazisti, si era avvicinato da ragazzo all’ideologia marxista e all’ascesa di Hitler (1933) si era trasferito in Gran Bretagna. Comunista ortodosso fino al 1956, aveva studiato a Cambridge e intrapreso la carriera accademica dopo la guerra. Noto soprattutto per il volume “Il secolo breve” (Rizzoli), dedicato ai conflitti del periodo 1914-1991 (due guerre mondiali e la guerra fredda, fino al crollo dell’Urss), in precedenza si era occupato del movimento operaio britannico.
Aveva studiato a fondo anche le figure devianti, con i tre saggi “I ribelli”, “I banditi” e “I rivoluzionari” (tutti editi in Italia da Einaudi). L’opera principale della sua vita resta comunque l’ampio affresco storico sull’età contemporanea del quale “Il secolo breve” (intitolato nell’originale inglese “The Age of Extremes”) costituisce l’epilogo e anche la parte più controversa, per una certa indulgenza dell’autore verso il totalitarismo sovietico. A quella serie appartengono i libri di Hobsbawm “Le rivoluzioni borghesi” (Il Saggiatore), “Il trionfo della borghesia” (Laterza) e “L’età degli imperi” (Laterza): il ciclo completo copre l’intero arco degli eventi dal 1789 alla fine del Novecento.
Esponente di una storiografia anglosassone capace di coniugare vastità d’interessi, rigore scientifico e chiarezza espositiva, Hobsbawm incarnava anche la vena critica di un marxismo lontano dal dogmatismo stalinista, ma incline a riconoscere tuttora una qualche funzione positiva alla rivoluzione bolscevica, se non altro come stimolo all’evoluzione dei sistemi politici occidentali in senso più favorevole alle classi lavoratrici. Tesi discutibile, se non altro perché tende ad attenuare la violenza del conflitto tra comunismo e socialdemocrazia. Non a caso il suo ultimo libro “Come cambiare il mondo” (Rizzoli) cerca di rivalutare il patrimonio politico e intellettuale del marxismo, anche alla luce della crisi in cui versa il sistema economico e finanziario plasmato dai vincitori della guerra fredda.
Fonte:http://www.corriere.it/cultura/12_ottobre_01/hobsbawn_1120e666-0bb0-11e2-a626-17c468fbd3dd.shtml
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