Di Giovanni Armillotta
Dopo trentasei anni, sappiamo che Stefano Jacomuzzi ha un erede
che ha per nome Nicola Sbetti. Son passati oltre sette lustri
dall’uscita del capolavoro del novese, mentre per sciocchezze o fatti di
basso conto in ben 36 mesi possiamo avere più titoli o edizioni su
argomenti sciocchi e/o leggeri, per evitare il termine ‘inutili’.
Ciò non dipende unicamente dalla pochezza intellettiva dei clienti del mercato, ma pure perché - come afferma Sergio Giuntini nella prefazione di Giochi di potere. Olimpiadi e politica da Atene a Londra 1896-2012
di Sbetti (Le Monnier, Firenze 2012) - non si vuole ammettere per il
fatto «che rivisitare un Giro d’Italia, un campionato calcistico o
un’Olimpiade voglia dire, solo e pienamente, fare storia contemporanea.
Un’affermazione forte in una realtà, quale quella italiana,
in cui non da tanto lo sport ha cominciato a ottenere considerazione e
dignità in seno all’Accademia, e in specie nei corsi di laurea in
Lettere, Filosofia, Sociologia, Scienze Politiche, Scienze della
Comunicazione. Ne sapeva qualcosa Stefano Jacomuzzi, l’autore cui
dobbiamo il più significativo lavoro pubblicato in Italia sulla storia
olimpica. Nelle occasioni giuste Jacomuzzi raccontava quante difficoltà
avesse incontrato da docente universitario di Letteratura a Torino
quando cominciò a occuparsi seriamente di sport. Per numerosi suoi
colleghi perdeva in autorevolezza, studiare lo sport appariva una sorta
di diminutio.
Un atteggiamento tra lo snobistico e l’intellettualistico, ma anche un po’ provinciale, cui Jacomuzzi reagì, appunto, con quella Storia delle Olimpiadi
(Einaudi, 1976) che resta un esempio insuperato di rigore scientifico e
chiarezza espositiva. Scritta con la profondità dello storico e lo
stile accattivante del letterato». È un’antica e pessima abitudine del
tutto italiana, quella di credere che chi si occupi di sport,
attivamente e/o bigliograficamente, sia o un fannullone alla ricerca di
facili guadagni alla stessa stregua di un giocatore d’azzardo senza
scrupoli o un illuso dilettante che «dovrebbe pensare a cose più
importanti», oppure – nel migliore dei casi – uno svampito. Pensate che –
narra Sbetti – quando l’Italia ebbe il suo esordio olimpico a Parigi
nel 1900, gli atleti si recarono nella capitale transalpina nel più
assoluto menefreghismo dell’esecutivo in quanto «[l]o sport in Italia
fra Ottocento e Novecento non [aveva] finalità prettamente ideologiche,
tant’è che v[eniva] trascurato dallo Stato liberale, perché si
rit[eneva] che veni[sse] praticato da perditempo».
Anche i non addetti ai lavori sanno bene che sin dal XIX secolo i paesi democratico-borghesi
curavano lo sport nei minimi particolari - Gran Bretagna, Francia,
Olanda, Belgio, ecc. - affinché essi divenissero modelli esemplari e
specchio non solo delle rispettive società, ma degli imperi con i quali
tali Stati si dividevano il mondo. Che poi l’Italia fascista abbia usato
lo sport, rafforzandolo e ponendolo all’acme internazionale, è una
delle tante ragioni che spiega l’inefficienza dei governi liberali
pre-1922. Sbetti ci dice che i dilettanti di Stato non furono
un’invenzione lenin-staliniana, bensì un’idea della Svezia nel 1912 (2ª:
1912, 1920, 1948), che l’Italia mussoliniana perfezionò (2ª: 1932,
ineguagliato; due volte campione del mondo di calcio, 1934 e 1938, una
volta olimpico, 1936, ecc.) con la Germania nazista (inizialmente
contraria alle partecipazioni internazionali) a ruota (1ª: 1936) e che
l’Unione Sovietica prima (1ª: 1956, 1960, 1972, 1976, 1980, 1988 e...
1992) e i satelliti dopo (Germania Est: 2ª 1976, 1980 e 1988) presero a
copiare e consolidare fino a quando anche la Cina popolare non ne ha
tratto profitto (1ª: 2008).
Dalle pagine di Giochi di potere apprendiamo pure un tema molto a cuore ai lettori di Limes:
il processo che ha condotto l’Adidas a diventare il decisore
verticistico dello sport mondiale. E v’è una sincronia esatta fra ciò
che riporta l’autore e gli albi d’oro-sponsor di Campionati mondiali, europei e olimpici di calcio.
L’elezione dell’allora sconosciuto (fuori Spagna) ex franchista riciclato
Juan Antonio Samaranch (1920-2010) alla presidenza del Cio fu voluta da
una ‘cupola affaristica’ che aveva come boss il manager dell’Adidas,
Horst Dassler (1936-87); in modo, sostiene giustamente Sbetti, da
"consentire alle forze economiche di penetrare all’interno del movimento
olimpico". Samaranch fu scelto però anche con l’accordo di João
Havelange, dal 1974 capo assoluto della più potente federazione sportiva
internazionale, la Fifa. Il tedesco e il brasiliano controllavano
rispettivamente i voti dei blocchi geopolitici africano e latino.
L’Africa, molto più propensa nei confronti di un ex breve, e meno esteso
colonialismo, quello guglielmino; mentre Havelange - autorità di spicco
della potente borghesia brasiliana (a cavallo fra dittature interne e
aperture verso i paesi in via di sviluppo negli affari esteri) -
rappresentava la scelta terzomondista in seno al potente pallone
mondiale, che prima di lui era stato sempre in mano a esponenti dello
screditato imperialismo anglo-francese.
In vista delle Olimpiadi di Seoul (1988), nelle
qualità di presidente anche della International Sport Leisure Agency,
Dassler firmò col Cio un programma quadriennale di sponsorizzazione
mondiale ("The Olympic Partners") che permise allo stesso Comitato di
accumulare riserve per 5 milioni di dollari e di mettere al sicuro, per
la prima volta nella sua storia, le proprie finanze. Con la stipula del
‘trattato’, Dassler fu definito l’‘eminenza grigia’ del movimento
olimpico. Del resto fu proprio Dassler a premere affinché, il 30
settembre 1981, Seoul fosse preferita a Nagoya, in quanto l’Adidas
intratteneva più importanti relazioni con la Corea del Sud (allora
dittatura sotto il pugno di ferro del gen. Chun Doo-hwan) piuttosto che
col democratico Giappone.
Dassler fece di tutto anche per evitare un possibile boicottaggio a guida Urss
per solidarietà a Pyongyang contro Seoul e organizzò una serie
d’incontri fra il Comitato organizzatore sudcoreano e il ministero
sovietico dello Sport. Nel gennaio 1988 Mosca accettò di partecipare:
quel giorno la borsa di Seoul raggiunse la quota massima della sua
storia. Boicottarono solo le irricattabili Albania, Comore, Cuba,
Etiopia, Madagascar, Nicaragua, São Tomé e Príncipe e Seicelle. La
scomparsa di Dassler non bloccò di certo l’influenza della ditta tedesca
in tali àmbiti.
Il tandem Samaranch-Adidas fu risolutivo, nel 1992,
nella risoluzione dei problemi d’immagine dell’appena defunta Urss. A
presentare a Barcellona l’ex colosso in veste competitiva (onde
magnificare la capitale catalana col crisma dell’universalità sportiva)
provvide innanzitutto Samaranch, recatosi a Mosca per intavolare
colloqui con Boris El’cyn sulla questione baltica e sulle restanti
dodici repubbliche sovietiche in attesa del riconoscimento dei propri
comitati olimpici. Dall’altra parte, l’Adidas pagò gran parte delle
spese di trasferta e soggiorno dell’ex ‘Impero del male’ in Spagna.
In definitiva il presidente e il marchio s’inventarono dal nulla
la ‘squadra unificata’ della Comunità di Stati Indipendenti che, guarda
caso, a Barcellona superò ancora gli Stati Uniti. L’inedita alleanza
ispano-germanico-sarmatica umiliò la tradizionale intesa
anglo-franco-statunitense avvalendosi degli ex comunisti che con
entusiasmo accettarono un ‘Piano Marshall’ europeo. Da qui si evince
l’eredità del defunto presidente del Cio, trasmessa alla sua Nazionale
di fútbol, campione del mondo 2010 ed europea 2008 e 2012, già campione olimpica e proprio a Barcellona: ossia la quadratura del cerchio.
Il libro di Nicola Sbetti - di ricchissima bibliografia -
è un vero e proprio esaustivo manuale di storia delle relazioni
internazionali, che dovrebbe essere adottato da tutte le cattedre
universitarie di storia degli sport. Le Olimpiadi rappresentano da
sempre, più dei mondiali di calcio, il termometro degli equilibri del
pianeta. Se sono trascorsi quasi quarant’anni dal penultimo testo in
argomento, ciò è dovuto alla questione che nel nostro paese coloro che
si occupano direttamente di sport non sono in grado di leggere gli
scenari fra le righe di un evento. Il provincialismo antisportivo
rafforzato dal Sessantotto; i preziosismi sul fatto fine a se stesso; il
gossip sull’individuo; la dissipazione logorroica in merito al
particolare; l’ignoranza socio-storica degli addetti ai lavori: tutto
ciò ha per contraltare seri e preparati studiosi quali Sbetti e Marco Bagozzi fra i pochissimi. Questi stanno creando una scuola d’indagine sugli effetti della geopolitica nello sport.
Prospettiva che prese piede esattamente dieci anni fa sulle pagine di Limes nel tentativo di sfatare l’indipendenza del risultato tecnico da quello deciso ‘ex ante’.
Alle Olimpiadi, atleti senza bandiere
Fonte: http://temi.repubblica.it/limes/olimpiadi-giochi-di-potere/37616
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