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Ci sono tante ragioni di interesse per la lettera che la nipote del cardinale Martini, l’avvocato Giulia Facchini, scrive oggi sul Corriere della Sera e che è rivolta alla zio e parla non solo “a lui”, ma “di lui” e della sua estrema testimonianza, che il professor Gianni Pezzoli aveva già sostanzialmente reso pubblica. Il cardinale Martini, nell’aggravarsi della malattia e nell’approssimarsi della morte, ha dettato le proprie volontà
in ordine alle cure che avrebbe voluto ricevere, ha rifiutato
l’alimentazione e l’idratazione artificiale e ha chiesto di essere
sedato.
Le cure che Martini ha rifiutato non erano né inappropriate, né
sproporzionate e sono ordinariamente praticate, con il loro consenso, a
pazienti che si trovano nelle condizioni in cui era Martini. Egli ha
rifiutato alcuni trattamenti sulla base dello stesso principio – quello
della libertà di cura – che porta altri pazienti ad accettarli. Quella
di Martini, per me, non è stata una scelta né più né meno libera, né più né meno “giusta”, né più né meno “umana”di quella di altri pazienti, che rispetto alle cure da lui rifiutate decidono diversamente.
Penso che la testimonianza di Martini vada meditata
da parte di quanti, per mesi, si sono imbarcati nell’impresa impossibile
di scrivere una legge sul fine vita che stabilisse in astratto
dettagliate regole di condotta e comportamenti obbligati per medici e
malati delimitando fino all’irrilevanza la volontà espressa “ora per
allora” dalle persone. Per essermene occupato e per avere cercato di
oppormi all’idea di legiferare su di un tema in cui basta ed avanza la
deontologia medica, con le libertà e responsabilità che prevede per
medici e pazienti, sono quindi confortato dalla testimonianza del
cardinale Martini, che trovo carica di umanità e del buon senso legato
alla concretezza dell’esperienza.
L’unica soluzione “politica” ai dilemmi etici del fine vita è lasciare a tutti la libertà di cui ha goduto il cardinale Martini, senza che una legge pretenda – come vorrebbe il testo approvato dalla Camera,
di imporre (e comunque non sospendere) l’alimentazione e l’idratazione,
i cosiddetti “trattamenti di sostegno vitale”, fino a che risultino “efficaci nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche essenziali del corpo”.
Penso che nessuno abbia alcun titolo per “giudicare” quanto i malati
fanno e non fanno, accettano e rifiutano, nelle fasi terminali di
malattie gravemente invalidanti. Ma mi pare evidente che attorno a
queste scelte non possa essere imbastita alcuna guerra di religione.
Fonte: http://www.libertiamo.it/2012/09/04/la-scelta-di-martini-la-liberta-di-tutti-una-lezione-sul-fine-vita/
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