Di Gian Piero De Bellis
http://www.polyarchy.org/
Qualsiasi discussione sulla proprietà o, come dicono alcuni, il
diritto di proprietà, sembra sfociare sempre o in profonde divisioni o
in ancor più profondi malintesi. Io credo che questo avvenga per tre
motivi principali:
a) ignoranza: moltissime persone che discutono
sulla proprietà facendo riferimento a concezioni del passato come il
liberalismo, il marxismo e l’anarchismo, hanno una conoscenza del tutto
superficiale, e solitamente di seconda o di terza mano, di quello che
gli esponenti principali di queste concezioni hanno detto a proposito
del tema.
b) malafede: questa scarsa conoscenza, ottenuta
attraverso divulgatori e giornalisti di parte che talvolta non hanno
fatto, neanche loro, il benché minimo sforzo di documentarsi alle fonti,
porta ad accettare tutta una serie di idee convenzionali che altro non
sono che il supporto di comodo, per politicanti e affaristi di tutti i
colori, per dare una patina di rispettabilità culturale ad interessi
tutt’altro che rispettabili.
c) intellettualismo: l’ignoranza e la
malafede vengono poi mascherati con un linguaggio da intellettuali,
facendo ricorso a tutta una serie di ragionamenti astratti che sono solo
il fumo dell’aria fritta con cui si cerca di nascondere un vuoto
sostanziale di conoscenze. In sostanza, invece di far riferimento alle
proprie esperienze personali, di come ci si comporterebbe in casi
concreti in relazione al tema della proprietà (ad es. di un bene mobile,
di un terreno, di un edificio storico, di un bosco, ecc.), si tirano
fuori parole magiche che rimandano a mondi fantasiosi abitati da esseri
umani inventati.
Se questa è la situazione attuale, allora sarebbe
bene chiarire alcuni aspetti che potrebbero ridurre l’ignoranza,
evidenziare la malafede, e accantonare, forse, l’intellettualismo.
La
riduzione dell’ignoranza. Tutte le concezioni del passato (liberalismo,
marxismo, anarchismo) hanno, per quanto possa sembrare strano, profondi
punti di contatto riguardo a parecchi temi, e soprattutto, riguardo al
tema “proprietà”. In effetti, gli esponenti di queste tre concezioni,
sorte come reazione al parassitismo dell’aristocrazia e
all’autoritarismo del potere, vedevano nei soggetti produttivi i punti
di riferimento obbligati per la nascita della proprietà. Non va
dimenticato che uno dei cardini comuni del pensiero economico dei
classici (Smith, Ricardo, Marx) è la teoria del valore-lavoro. Il valore
economico (che è un concetto diverso dall’utilità di un bene) deriva,
per essi, dal lavoro. Ne consegue, sulla base della loro impostazione,
che il valore economico generato attraverso il processo produttivo
sarebbe dovuto diventare, in gran parte, di proprietà del lavoratore, in
quanto fattore centrale della produzione (gli altri sono la terra e il
capitale).
Per Locke, se esiste in natura un bene a cui
l’individuo applica per primo il suo sforzo lavorativo, quel bene e i
frutti che ne derivano diventano sua proprietà. In sostanza, alle
origini del liberalismo vi è una chiara sottolineatura del collegamento
tra attività e proprietà.
E a ben leggere Marx, non sembra proprio
che egli abbia obiezioni di sorta rispetto a questa posizione. Anche
per Marx il legame attività-proprietà è un punto cardinale. La sua
critica si rivolge infatti ai ceti possidenti che, con la connivenza e
l’approvazione del Parlamento di cui essi erano parte dominante, hanno
espropriato le terre di proprietà comune degli abitanti delle campagne.
Questo è avvenuto con atti del Parlamento e non attraverso attività
produttive di alcun genere. Certamente, questo furto di proporzioni
incalcolabili ha avuto risultati positivi in termini di crescita della
produzione agricola e poi di avvio della Rivoluzione Industriale. Ma
esso era e rimane, sempre e comunque, un furto.
Quindi è
un dato di fatto che i possidenti inglesi hanno messo sotto i piedi il
concetto di proprietà come aveva fatto, precedentemente, il re Enrico
VIII espropriando i beni dei monasteri. Nel Manifesto dei Comunisti Marx
risponde all’accusa di voler abolire la proprietà facendo notare che,
ai suoi tempi, la proprietà privata era già stata abolita per la
maggioranza della popolazione lavorativa. Ed egli fa questa
constatazione senza alcun sfumatura moralistica in quanto per lui la
borghesia, come classe rivoluzionaria, aveva fatto bene a compiere gli
espropri perché questo aveva permesso che la società avanzasse verso un
futuro di progresso. E a questo riguardo Marx ribadisce il fatto che
“tutti i rapporti di proprietà sono sempre stati soggetti a un continuo
mutamento storico, a una continua trasformazione storica.” “La
Rivoluzione francese, ad esempio, abolì la proprietà feudale a favore
della proprietà borghese.”
Quello che Marx rimprovera davvero alla
borghesia è di pensare che il suo esproprio è definitivo e che
l’emergere di nuovi proprietari è soltanto una macchinazione ai suoi
danni, che va totalmente evitata. In sostanza la borghesia vuole
arrestare il progresso storico, e questo è per Marx il massimo dei
delitti.
Per Marx infatti non si può fermare la storia (come
vorrebbero i reazionari). La tappa successiva, nella sua concezione
rivoluzionaria, sarebbe consistita nella fine della proprietà borghese,
che è la proprietà di un ristretto numero di persone. Alla fine siamo
catapultati in un mondo di libere attività e di liberi scambi in cui il
lavoro dipendente è scomparso e con esso lo sfruttamento e la miseria
derivanti dalla mancanza di proprietà, accaparrata da una cerchia sempre
più ristretta di monopolisti borghesi.
In sostanza, Marx può
essere visto come uno dei massimi sostenitori della proprietà, estesa
soprattutto a coloro che erano, ai suoi tempi, proprietari solo della
loro forza-lavoro, Questa universalizzazione della proprietà significa,
per Marx, la riappropriazione, da parte di ciascun produttore, della sua
essenza umana, l’emancipazione di tutti i sensi e di tutti gli
attributi umani, e la fine dell’alienazione e dello sviluppo abnorme di
un solo senso, il senso dell’avere. (Manoscritti economico-filosofici
del ’44)
Lo stesso discorso vale, grosso modo, anche per Proudhon
di cui molti conoscono solo la frase “La proprietà è il furto” mentre
ignorano o fanno finta di ignorare l’altra sua espressione “La proprietà
è la libertà”. Il problema infatti è sempre quello posto fin
dall’origine da Locke: la proprietà come privilegio e rapina (furto) o
la proprietà come frutto del proprio lavoro (libertà).
Anche
Bakunin (esponente del collettivismo anarchico) collegava quello che uno
riceveva come compenso (e quindi come sua proprietà) al contributo
lavorativo che la persona aveva fornito. Quindi, anche nel caso del
collettivismo anarchico, non si auspicava affatto una redistribuzione da
chi aveva, perché aveva prodotto qualcosa, a chi non aveva perché non
aveva voluto fare alcunché di produttivo.
Se questa è la realtà,
se cioè vi è un filo comune, rappresentato dalla proprietà derivante
dall’attività produttiva (lavoro), che lega queste concezioni
(liberalismo, marxismo, anarchismo), allora come è possibile che ci
siano tanti contrasti e così accese contrapposizioni?
A mio avviso
questo è spiegabile perché i sostenitori delle posizioni contrapposte
non sono, in realtà, né liberali né marxisti né anarchici ma un
miscuglio variegato di finti liberali, marxisti inventati e
pseudo-anarchici, e tutti assieme si sono costruiti una ideologia di
comodo che ha anch’essa un filo conduttore comune, ma che è di segno del
tutto opposto a quello appena esaminato (attività-proprietà)
Lo
smascheramento dell’imbroglio. Le classi possidenti del passato e i
grandi proprietari del presente, in molti casi, hanno avuto accesso alla
proprietà attraverso un connubio affaristico con il ceto politico.
Negli Stati Uniti la funzione delle lobbies è stata ed è quella di
lubrificare gli ingranaggi della politica per ottenere rendite di
posizione che hanno portato all’acquisto di enormi fortune (proprietà).
Scriveva Richard Heffner a proposito della Gilded Age (fine 1860-fine
1890): “Sebbene gli uomini d’affari spendessero vaste somme per
comprarsi gli uomini politici più disponibili, i loro investimenti
pagarono enormi dividendi sotto forma di assistenza governativa ad una
espansione industriale continua.” (A Documentary History of the United
State, 1952).
In Italia le banche e le grandi imprese hanno avuto
rapporti intimi con il potere politico per scambi continui di favori,
sovvenzioni, appoggi.
In sostanza, quasi dappertutto, la proprietà
non è quella che volevano i liberali (Locke), i marxisti (Marx) e gli
anarchici (Proudhon) cioè la proprietà come libertà che scaturisce da
libere attività, ma la proprietà come furto che proviene da vincoli e
privilegi politici a seguito dei legami tra il ceto affaristico e il
ceto politico. Questa proprietà-imbroglio può emergere come realtà
sociale solo in quanto è sanzionata attraverso la legge dello stato, a
differenza della proprietà-attività che è una realtà razionale, cioè un
fatto sociale evidente, insito nella natura delle cose (io produco
qualcosa – io ne sono il proprietario).
In questo imbroglio della
proprietà degenere, che esiste solo in quanto diritto riconosciuto dallo
stato, moltissimi continuano a cadere. Se questa fosse l’origine e la
caratteristica essenziale della proprietà (essere sanzionata dallo
stato) allora tutte le proprietà sarebbero in una situazione di totale
precarietà in quanto soggette sempre ad un eventuale esproprio per
legge. Eppure questa è la posizione dei finti liberali (lo stato
garantisce la proprietà) e dei finti marxisti (lo stato assicura la
redistribuzione della proprietà). Chiaramente, la proprietà a cui essi
fanno riferimento è la proprietà come furto.
Infatti sono un
furto, perpetrato dai finti liberali alla Mario Monti (premiato della
fondazione Hayek in quanto liberale doc per l’anno 2005) i miliardi che
lo stato distribuisce ai grandi gruppi economici e bancari. A questa
pratica del furto si sono associati i marxisti fasulli del socialismo
cialtrone dei ceti improduttivi, i quali vogliono godere anche loro di
fette consistenti della torta. Quindi aiuti a pioggia anche a piccole
mafie locali (i forestali, i portaborse, i frequentatori di corsi
finanziati dalle regioni, ecc.) e corporazioni nazionali (i giornalisti,
i cineasti, gli operatori turistici, ecc.) nel migliore stile della
spartizione camorristica del bottino.
La possibile fine di questi
furti, come quelli compiuti dai latifondisti inglesi in passato, è vista
molto male da tutti i ceti parassitari che strepitano contro i presunti
tagli alla spesa sociale.
Ma quale spesa sociale? Qui è ancora
tutto un magna magna colossale dei parassiti statali e para-statali e
una spremitura continua dei produttori e delle categorie più deboli
(anziani, lavoratori immigrati) attraverso aumenti dell’IVA (+ 3 punti
in Spagna), del prelievo fiscale sulla casa (IMU in Italia), delle
accise sulla benzina e via di questo passo.
In italia i finti
liberali alla Mario Tonti, i socialisti inventati del PD targato Goldman
Sachs e gli pseudo-anarchici foraggiati o manipolati dalla polizia di
stato, stanno distruggendo i ceti produttivi e la proprietà derivante
dalla libera attività.
Purtroppo, un contributo perché tutto ciò
avvenga è dato non solo da coloro che parlano, a sproposito di
ultraliberalismo, ma anche da quelli che imprecano contro il comunismo e
si inventano posizioni falsamente contrapposte, mentre la sola vera
contrapposizione è tra produttori e parassiti, qualunque sia la loro
concezione di riferimento o meglio l’imbroglio di concezione a cui
questi contafrottole imbroglioni dicono di fare riferimento.
La fine dell’intellettualismo Lo smascheramento dell’imbroglio può quindi avvenire solamente se:
(a)
smettiamo di parlare di concezioni di cui sappiamo poco o nulla, sulla
scia di pensieri convenzionali che ci hanno introdotto nel cervello ai
tempi della scuola di stato e che ci martellano ogni giorno (per paura
che il cervello possa riprendere a funzionare autonomamente) attraverso i
mezzi di comunicazione del regime;
(b) torniamo a parlare di
problemi concreti e gettiamo alle ortiche tutto il frasario ideologico
pseudo-intellettuale. A quel punto dovrebbe risultare chiaro e immediato
per tutti capire che
- non ci sono pasti gratis (ci possono essere pasti offerti dalla generosità di qualcuno, ma non ci sono pasti gratis) e che
-
la proprietà si ottiene solo attraverso l’attività produttiva (ci può
essere una proprietà che scaturisce da un dono, ma non certo una
proprietà derivante da furto o da esproprio).
L’invito sincero è
allora quello di smetterla di parlare di liberali, comunisti, anarchici o
altre categorie simili che, al giorno d’oggi, sono solo un imbroglio
colossale a danno dei creduloni e a profitto dei furboni.
In
realtà, se vogliamo semplificare le cose e andare al nocciolo della
questione, ci sono solo, come già detto, sfruttatori e sfruttati,
tartassatori e tartassati, profittatori e produttori.
Una volta
che avremo capito questo saremmo sulla buona strada per finirla con
tutte le contrapposizioni inventate e saremmo finalmente pronti ad
unirci con tutti i produttori contro tutti i parassiti, al di là di
qualsiasi etichetta, vera o fasulla che sia.
Se continuiamo invece
con le nostre affabulazioni senza fondamenta, non lamentiamoci poi se i
parassiti di questo mondo saranno ancora lì, nei secoli a venire. I
furbi, cioè quelli che meglio adattano la situazione alle loro esigenze,
anche a scapito degli altri, saranno sempre destinati a prevaricare
sugli ingenui che abboccano agli ami di tutte le castronerie. Solo
diventando più intelligenti, cioè collegando (inter-lego) le idee
produttive e agendo con i portatori di queste idee (i produttori) è
possibile rifondare la proprietà come espressione e risultato della
libera attività
Dixi et salvavi animam meam.
Fonte: http://www.movimentolibertario.com/2012/07/24/sulla-proprieta-il-perche-delle-profonde-divisioni/
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