Di Andrea Scarponi
E’
ormai da diversi anni che imperversano nei dibattiti politici temi
‘scottanti’ quali, ad esempio, la questione dei diritti civili alle
coppie omosessuali o il diritto alla ‘buona morte’, l’eutanasia, per i
malati terminali. Come è ovvio che sia in un dibattito, da ambo le parti
si agitano coloro che propendono per questa o quell’altra soluzione: la
platea si divide puntualmente in pro e contro; dall’una e l’altra
volano insulti di ogni tipo fino a che l’atmosfera non diviene
incandescente e si arriva allo scontro frontale.
In questi due citati esempi (e se ne potrebbero fare molti altri), se solo si provasse a spostare l’angolo prospettico da cui la questione viene osservata, ci si accorgerebbe che il punto non sta tanto nel capire quale delle due parti abbia ragione e meriti la soddisfazione delle proprie richieste, quanto piuttosto che tutti i problemi nascono da due concetti che nulla hanno a che vedere con le ragioni dell’una e dell’altra parte, ma che nondimeno costituiscono il cruccio del ‘perdente’ in ogni caso.
Infatti, analizzando la questione da una prospettiva che rimetta al centro la libertà individuale, non ci sarebbe alcun modo di dirimere la controversia ricercando una ‘ragione universale’ nelle tesi contrapposte, perché una tal ragione non esiste: essere pro-gay, pro-eutanasia, pro-aborto ecc. è tanto legittimo quanto esservi contrari, benché solitamente una presunta superiorità intellettuale bolli come ‘bigotte’ le tesi oltranziste dei contrari perché questi vogliono limitare, per l’appunto, quella libertà che si vuole difendere. A ben vedere, se essere liberi significa poter autodeterminarsi e prendere libere decisioni, non c’è alcun modo per negare la libertà di essere contrari a certe questioni, anche se tali indirizzi appaiono illiberali.
In questi due citati esempi (e se ne potrebbero fare molti altri), se solo si provasse a spostare l’angolo prospettico da cui la questione viene osservata, ci si accorgerebbe che il punto non sta tanto nel capire quale delle due parti abbia ragione e meriti la soddisfazione delle proprie richieste, quanto piuttosto che tutti i problemi nascono da due concetti che nulla hanno a che vedere con le ragioni dell’una e dell’altra parte, ma che nondimeno costituiscono il cruccio del ‘perdente’ in ogni caso.
Infatti, analizzando la questione da una prospettiva che rimetta al centro la libertà individuale, non ci sarebbe alcun modo di dirimere la controversia ricercando una ‘ragione universale’ nelle tesi contrapposte, perché una tal ragione non esiste: essere pro-gay, pro-eutanasia, pro-aborto ecc. è tanto legittimo quanto esservi contrari, benché solitamente una presunta superiorità intellettuale bolli come ‘bigotte’ le tesi oltranziste dei contrari perché questi vogliono limitare, per l’appunto, quella libertà che si vuole difendere. A ben vedere, se essere liberi significa poter autodeterminarsi e prendere libere decisioni, non c’è alcun modo per negare la libertà di essere contrari a certe questioni, anche se tali indirizzi appaiono illiberali.
Quali sono, dunque, i concetti
all’origine di queste problematiche che finiscono inevitabilmente per
falsare ogni realtà fenomenica che si manifesta in un dato momento
storico e in una certa popolazione? Manco a dirlo, uno è il concetto di ‘Stato‘, l’altro è quello di ‘diritto‘.
Questi due concetti sono legati indissolubilmente da un doppio filo sin
da quando gli esponenti di una certa corrente di pensiero – il
giusnaturalismo – ha fatto la sua comparsa nell’Europa continentale.
Parlare per la prima volta di diritti della persona (di property individuale) e non soltanto di diritti sulla res,
aveva allora un significato ben preciso, ossia quello di affrancare
l’uomo, qualsiasi uomo, dall’arbitrio dispotico di un tiranno,
delimitando un’area virtuale attorno alla persona che non poteva essere
oltrepassata da qualsivoglia decisione del potere (ed aggiungerei, da
qualsiasi manifestazione del potere). Si capisce come un tal modo di
ragionare avesse, a quel tempo, una notevole carica rivoluzionaria: nel
tempo in cui i Re possedevano lo ‘ius vitae ac necis‘ su
ciascuno dei propri sudditi, affermare il ‘diritto alla vita’ come
supremo, innato e irrinunciabile, significava compiere il passo decisivo
verso la libertà sostanziale.
Avvenne, poi, con la rivoluzione
francese, che questo nucleo di diritti essenziali e irrinunciabili
costituì al contempo la ragion d’essere e il limite dello Stato moderno:
una volta, infatti, che i diritti furono proclamati, non restava che
trovarne il fido garante e assicurarsi che questo non li avrebbe a sua
volta sovvertiti. Ora, ai fini di questa breve disamina, vale la pena
prendere in considerazione uno dei caratteri essenziali dello Stato di
diritto: il monismo giuridico, ossia la pretesa di essere l’unico
soggetto con la capacità di emanare norme giuridiche aventi efficacia in
un dato territorio (solitamente i confini nazionali, ma in alcuni casi
anche al di fuori di questi – si pensi al diritto penale italiano,
tendenzialmente universale). Ed è proprio il monismo giuridico ciò che,
nello specifico, causa gli attriti di cui si è parlato all’inizio:
essere l’unico soggetto in grado di poter stabilire cosa è lecito e cosa
non lo è, significa consegnare nelle mani di una maggioranza, o di una
confessione religiosa, o di un leader carismatico e così via, lo ‘ius vitae ac necis‘
sulla legittimità di una certa pretesa. Vista così, si potrebbe
affermare come molte delle varie lotte per la conquista di diritti, in
realtà, non sono state altro che riappropriazioni di ciò che sarebbe
dovuto essere in una società autenticamente libera, e che invece sono
state soffocate dalla tracotanza statale, ben lungi dall’essere quel
paradiso idilliaco che si fa espressione della ‘volontà generale’ del
popolo.
Quindi, ricapitolando, lo Stato è a
presidio dei diritti individuali; lo Stato decide quali diritti hanno
ragion d’essere nel suo territorio. Capito il trucchetto? Ritorniamo
alla questione dei diritti civili delle coppie omosessuali. Lo Stato
riconosce alle coppie eterosessuali che convolano in matrimonio alcuni
diritti civili in funzione dell’importanza che la famiglia ricopre
nell’organizzazione sociale come, ad esempio, la reversibilità della
pensione per il coniuge superstite. Quando le coppie omosessuali
avanzano la medesima pretesa, ossia di potersi sposare per accedere alla
reversibilità della pensione (per rimanere all’esempio), lo fanno
essenzialmente perché altrimenti non c’è via attraverso la quale possano
ottenere un servizio di tal guisa. In un paese ove la previdenza è
pubblica, non v’è alcun modo per questi di ottenere siffatto ‘diritto’
rivolgendosi a una certa azienda assicuratrice piuttosto che a un’altra
che non prevede, in ipotesi, quell’opzione.
In effetti, quello che preme sottolineare è che il punto della questione, e del dibattito ad essa inerente, non è tanto il se un certo punto di vista è più giusto di un altro, quanto piuttosto il fatto che finché sarà lo Stato a presidiare i diritti della persona, vi sarà sempre un cittadino di seria A e uno di serie B, specie se gli strumenti per l’attuazione di talune pretese restano nelle monopolistiche mani dello Stato. Quindi, il riconoscimento di diritti civili alle coppie omosessuali, pur covando una forte carica simbolica e pur potendo avvicinare la realtà attuale a una condizione più equa, non risolve affatto il cuore del problema, che, rebus sic stantibus, è destinato a ripetersi all’infinito in una società regolata da un legislatore (unico e) morale.
In effetti, quello che preme sottolineare è che il punto della questione, e del dibattito ad essa inerente, non è tanto il se un certo punto di vista è più giusto di un altro, quanto piuttosto il fatto che finché sarà lo Stato a presidiare i diritti della persona, vi sarà sempre un cittadino di seria A e uno di serie B, specie se gli strumenti per l’attuazione di talune pretese restano nelle monopolistiche mani dello Stato. Quindi, il riconoscimento di diritti civili alle coppie omosessuali, pur covando una forte carica simbolica e pur potendo avvicinare la realtà attuale a una condizione più equa, non risolve affatto il cuore del problema, che, rebus sic stantibus, è destinato a ripetersi all’infinito in una società regolata da un legislatore (unico e) morale.
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