Di Stefano Micelli
In risposta a De Masi, sulla produttività. Da un lato ha ragione:
l’Italia dei tornelli negli uffici non può andare avanti. Ma su altre è
superficiale: la realtà economica non può essere suddivisa in categorie
che ricordano i gironi danteschi (lavori fisici, lavori da impiegato e
lavori creativi), ma al contrario servono legami, incontri tra chi fa e
chi pensa, perché una buona idea diventi un buon prodotto. Ma per
incontrarsi, serve un luogo fisico, e questo può essere solo l’ufficio.
Lo so, dovrei postare questo appunto fra i commenti all’articolo di De Masi. Ma non amo i commenti lunghi.
È che l’intervista a De Masi è interessante perché pone alcune questioni reali.
La questione della produttività merita di essere ripensata. Siamo
entrati, anche noi italiani, in quella economia della conoscenza che a
lungo abbiamo annunciato senza necessariamente attrezzarci con categorie
logiche all’altezza. Se pensiamo di risolvere il problema degli uffici
coi tornelli, vuol dire che non abbiamo ancora capito la sfida che ci
attende. De Masi suona la sveglia e questo va a suo merito.
Su un passaggio, invece, è più difficile seguire il ragionamento. De Masi – semplifico al massimo – ha
in mente un’economia dantesca, composta da gironi separati e
indipendenti. In un girone ci sono quelli che fanno industria, quelli
che lavorano con le mani, gli operai delle fabbriche. Oltre a questo
girone un po’ infernale, nella volta celeste, troviamo il girone
dell’economia dell’immateriale dove la materia prima e l’oggetto degli
scambi è principalmente l’informazione (di ogni tipo, scientifica,
tecnica, artistica e via dicendo). In mezzo il purgatorio degli
impiegati di banca…
Senonché questa rappresentazione dell’economia presenta più di un problema
per chi vuole descrivere l’Italia di oggi: nel nostro paese la
produzione industriale di cui parla De Masi se ne è andata (salvo
eccezioni) in paesi dove il costo del lavoro è minore. Le idee ci sono,
ma il loro mercato non è poi così florido. Gli italiani, invece, sono
diventati molto abili a vendere creatività e intelligenza incastrate in
manufatti interessanti. Vendiamo macchine personalizzate, mobili di
design, occhiali sofisticati, abiti su misura, vini originali.
La benzina di questa economia è l’ozio creativo? Non proprio. Perché una buona idea
si incastri in un buon prodotto (o, viceversa, perché un buon prodotto
incorpori un’intuizione intelligente) servono prove ed errori, tempi
lunghi, olio di gomito. Soprattutto serve che chi pensa parli con chi fa
e viceversa. L’intellettuale è costretto a vivere un po’ meno nel suo
empireo e a sporcarsi le mani con i problemi della produzione; per
contro agli artigiani delle nostre imprese spetta il compito di
spiegare, capire e riflettere. Insomma, un mondo di commistioni, diverso
da quei gironi concentrici di cui sopra.
E qui veniamo ai nuovi luoghi del lavoro, su cui De Masi si sofferma.
È vero che l’ufficio, nell’accezione fantozziana del termine, serve a
poco. Questo non significa che lavorare insieme non abbia più senso. Se
dobbiamo immaginare, sviluppare e produrre oggetti che richiedono la
nostra intelligenza, la condivisione di uno spazio comune conta, eccome.
Luoghi di sperimentazione, laboratori, botteghe: chiamiamo questi nuovi
spazi del lavoro un po’ come vogliamo. Il punto è che per produrre
oggetti che abbiano un senso dobbiamo incontrarci e lavorare insieme. Se
tutto fosse risolvibile con una telefonata dalla spiaggia sarebbe
troppo facile. È per questo, direi, che continuiamo a parlare di
“imprese”.
*Professore associato di Economia e Gestione delle Imprese
presso la Facoltà di Economia, Università Ca’ Foscari di Venezia
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