Banchieri e agricoltori |
Di Maurizio Blondet
Finalmente
anche i grandi Media si sono accorti che nel mondo manca il cibo, e che
nei Paesi della povertà scoppiano tumulti per il pane (o il riso)
rincarato.Ovviamente,
forniscono il risaputo elenco di cause: aumentati consumi cinesi e
indiani, global warming, cereali destinati a bio-carburante anziché
all’alimentazione; e infine la speculazione: gli investitori
speculativi (hedge fund) sono lì a guadagnare sui rincari, puntando su
ulteriori rincari e con ciò provocandoli. Ma
tacciono la causa primaria della carestia avanzante, che è la dittatura
globale della Finanza, di un’economia in cui i valori sono
esclusivamente monetari.
La Finanza, semplicemente, odia l’agricoltura. La odia da sempre. Perché? Anzitutto perché l’agricoltura non consente i profitti del 20-30% almeno che la speculazione esige ed ottiene dalle industrie, specie avanzate,
e dai trucchi del marketing. Una tela blu che si produce a chilometri e
costa quasi nulla, confezionata in un jeans che costa alla fabbrica
forse 1,5 euro, si può vendere a 200 euro se vi si appone il marchio
Dolce&Gabbana: questo sì che è profitto, ragazzi! L’industria può essere incitata a produrre più merci con costi minori (meno lavoratori, più produttivi). I servizi,
specie quelli immateriali, possono rendere il 40-50%. L’agricoltura no.
Resta inchiodata, con ostinazione primordiale, ai rendimenti naturali: 3-4%, magari 8-10% per colture pregiate, o che il marketing riesce a dichiarare pregiate. Dal punto di vista della Finanza, non conviene
investire nella produzione agricola. Aumentare il concime chimico sui
campi, spendere di più in gasolio per i trattori e in benzina per gli
aerei da inseminazione estensiva, non porta ad aumenti di produzione
proporzionali. Soprattutto,
il maggiore investimento non accelera la produzione. Per quanto concime
si butti, il grano ci mette sempre un anno a maturare. Per quanti
ormoni inietti nella vacca, per quanto la alimenti di soya, quella non
farà il vitello che nei soliti nove mesi. Questa lentezza fa impazzire di rabbia gli usurai. Tanto più li esaspera la coscienza torbida che tutti i loro valori - quelli quotati in Borsa e sui mercati- dipendono, in ultima analisi, da quel solo valore, il cibo, prodotto con quella lentezza naturale. Il dollaro e l’euro non valgono quello che dicono i mercati,
se il grano rincara (com’è avvenuto) del 200% in sette anni: valgono
del 200% in meno. Le azioni, le obbligazioni, i derivati,
incommestibili, perdono ogni valore per la gente che non ha da mangiare.
Ma
quello che davvero li manda in bestia è questo fatto: che, per giunta,
le messi e i raccolti sono un dono. Qualcuno, alla base dell’economia,
regala le cose: ciò davvero fa rabbia agli usurai. Sì, il contadino si
affatica, spende e s’indebita per comprare carburanti e concimi; ma il
processo di fabbricazione, quello per cui il seme diventa una spiga che
moltiplica i semi, o un fiore si tramuta in albicocca turgida, non è lui
a padroneggiarlo. Avviene da sé. Ed è gratis. Il contadino lo sa
benissimo, e quando vede il suo grano dorare, lo chiama “questo ben di
Dio”. Il che è, per la Finanza, imperdonabile. Il
contadino, posta in opera tutta la sua tecnica e la sua sapienza e il
suo lavoro perché il dono annuale possa avvenire, poi, prega: che la
grandine non devasti il frutteto, che il verme non roda l’uva e le
grandi foglie del tabacco. Altro riconoscimento che il prodotto, alla
fine, non dipende da lui. Altro fatto degno della massima punizione.
Non
sto idealizzando il contadino. Quand’ero ragazzino (parliamo di
cinquant’anni fa), ho passato estati in casa di parenti contadini
toscani, e due cose mi stupivano di loro: quanto bestemiassero, e quanto
mancassero di quattrini. Non mancavano di cibo, né lo lesinavano a me
ragazzino che stavo con loro un mese o più: il coniglio arrosto, l’uovo
fresco, il pane con l’olio, la zuppa di fagioli, li davano con
generosità, per loro non erano un costo, o non lo calcolavano, perché
per loro era gratis. Mancavano però di denaro contante: comprare un paio
di scarpe era una rarità, persino il sale - che andava comprato - era
una spesa da fare oculatamente (il pane toscano è senza sale, come
sapete). La tavola era abbondante, ma il portafoglio era vuoto, e i
contadini erano tirchi. E bestemmiavano. Ora capisco che le due cose
sono in relazione. È
la Finanza che ha fatto sempre mancare i soldi ai contadini. Il mercato
- quello vero - a cui portavamo i polli e le uova, il grano e le
pesche, non pagava che il minimo indispensabile. In contanti, l’uovo
valeva poco o nulla. Si tornava dal mercato con pochi spiccioli,
bestemmiando. Anche voi bestemmiereste: tanta qualità di lavoro
qualificato - perché il contadino toscano possedeva conoscenze
stupefacenti sulla rotazione agricola, sul trifoglio che fertilizza la
terra mentre nutre le vacche, sulla luna esatta in cui fare gli innesti,
su una quantità di segreti e misteri che da ragazzino mi sarebbe
piaciuto imoparare - e tanto mal compensato.
Oggi, nella Finanza, questi saperi si chiamano know-how,
saper-come-fare, e sono apparentemente molto apprezzati; la realtà è
che sono apprezzati (in milioni di euro) il know-how del pubblicitario e
della velina, dello speculatore Soros e dell’usuraio, ma già il
know-how dell’ingegnere è pagato molto meno, e quello del contadino meno
di tutti. Perché meno di tutti? Come ho detto, perché l’aumento dell’ investimento non ha rapporto con l’aumento del prodotto. Anzi peggio: il ciclo agricolo ideale consiste nel risparmiare
gli investimenti, ridurli al minimo indispensabile in cui il dono possa
avvenire. Idealmente, è un ciclo chiuso di auto-produzione. Il concime è
un sottoprodotto del bestiame e degli uomini (sterco, urina, strame
fermentante), che non costa nulla - e ci mancherebbe che la cacca
costasse. Le sementi, una quota del raccolto messa da parte. Mettetevi
nei panni dello speculatore che vede il contadino tendere a non
chiedere capitale per comprare il concime, perché lo strame delle sue
mucche glielo dà gratis. Il suo pensiero è: Crepa allora, villano! Ti
farò sputare sangue! E infatti, sin dall’alba della storia,
l’agricoltura è il settore più radicalmente espropriato. Perché, pur essendo il settore su cui si basa tutta l’economia monetaria (non a caso è definito settore primario), essa è sostanzialmente estranea all’economia. È altro, è la fonte primaria di abbondanza. In
essa, il lavoro umano non si misura ad ore, è fatica estrema che
nessuna moneta può pagare, né nessuna Moody’s valutare: esattamente come
il travaglio della mamma che partorisce un nuovo uomo. Sicché, da sempre, gli usurai hanno fatto di tutto per indebitare l’agricoltore. Da
sempre, lui mancando di soldi per le scarpe e il sale, gli hanno
comprato il grano in erba, naturalmente con uno sconto: il tuo grano
maturo varrebbe cento? Te lo compro sul campo, però a 40. Sai, se
grandina, mi accollo il rischio finanziario... Il contadino,
bestemmiando, china il capo.
L’acquisto del grano in erba, che verdeggia sul campo, è il primo future, il primordiale prodotto finanziario derivato,
su cui tutti gli altri sono modellati. Oggi che la Finanza esercita la
sua dittatura totale e incontrastata sul mondo, l’esproprio agricolo
tocca ovviamente il limite estremo. Contadini indiani conoscono da
millenni una pianta che produce naturalmente un pesticida? La ditta di
bio-tecnologie quotata in Borsa si affretta a brevettarlo: ora i
contadini indiani dovranno comprare il loro pesticida alla ditta di Wall
Street. Bisogna impedire al contadino di avere le sue proprie sementi:
ecco la Monsanto offrirgli quelle brevettate, ibridi, OGM, ossia
sterili. I chicchi che produce il grano OGM, anche seminati, non danno
frutto. Ogni anno il contadino dovrà ricomprare le sementi. A credito. È
tutto così, naturalmente: l’offerta di concimi chimici, di macchinari,
di biotecnologie, il marketing, le assicurazioni contro la grandine
(così non avrai bisogno di pregare, villano), tutto è teso allo scopo
unico: finanziarizzare l’agricoltura, renderla asservita al debito e al
denaro, estrarne profitti innaturali. Naturalmente,
la liberalizzazione mondiale dei commerci, imposta dal guardiano WTO
della Finanza, e dalle burocrazie sue serve strapagate, ha lo stesso
scopo: trasformare il cibo totalmente in merce esportabile, dunque
pagabile. Perché
coltivate grano e producete latte in Europa, dove la manodopera costa, e
l’agricoltura è diventata anti-economica (a forza di investimenti)?
Compratelo dalle zone del mondo dove il grano costa meno, è competitivo, è concorrenziale. Volete perseguire l’autosufficienza alimentare? Vecchie sorpassate teorie, autarchiche. Anzi,
peggio: la battaglia del grano era fascista, dunque è il Male Assoluto!
Oggi c’è il libero commercio, il gran mercato che vi offre tutte le
merci al prezzo più competitivo! Così, l’eurocrazia ha abolito i sussidi
all’agricoltura europea.
Ha
pagato altri sussidi, a dire il vero: ma per ammazzare le vacche, ha
pagato per lasciare incolti i campi –e sono di colpo finiti i surplus. Caso strano, in USA invece i sussidi all’agricoltura sono stati promossi, ma per uno scopo: per i bio-carburanti. Produci
mais da biofuel, e noi ti copriamo i costi, ha detto la Finanza (con la
voce della Casa Bianca) al contadino: e lui s’è buttato, il 16-18% dei
terreni americani produce per il biocarburante. Per mettere 50 litri di
bio-etanolo nel serbatoio dell’auto, si consumano 238 chili di
granturco. Sussidi
di stato tornano, ma per la speculazione, per la Finanza monetaria. E
il mais da etanolo si potrebbe seminare su terreni marginali; ma no,
vogliono che occupi i terreni primari, buoni per l’alimentazione umana.
Non è certo un caso. Perché
il modo ultimo, finale e definitivo, per finanziarizzare l’agricoltura,
è provocare la scarsità. Allora ciò che nasce gratis ha finalmente un valore quotato. E permette di estrarre profitti favolosi. Finalmente il frumento sale come le azioni, il 200% in otto anni!
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