Di Romano Bracalini
Non appena la “spending review” ha cominciato a muovere i
primi passi, con le lentezze del caso e col tradizionale ritardo d’ogni
programma italiano, Napolitano, con scarso senso
dell’opportunità, ha ritenuto di avvertire il governo di procedere a
“tagli compatibli” della spesa pubblica, la quale avendo dimensioni
gigantesche di parassitismo e di spreco di tutto avrebbe bisogno salvo
che di avvertimenti alla sobrietà e alla cautela. Ma chi della
democrazia ha sempre avuto un’idea relativa, come Napolitano, non può
certo cambiare all’improvviso e rifarsi una verginità nuova.
L’uomo è ciò che è ed è sempre stato. Fin dai tempi
della segreteria Togliatti, dopo i fatti di Ungheria, nel 1956,
Napolitano, pur richiamandosi all’ala migliorista, di “destra” del PCI,
si è sempre segnalato come un elemento di apparato, docile e devoto alle
direttive del parito. La crisi della partitocrazia, della quale è stato
tra gli alfieri più convinti e tenaci, e grazie alla quale ha rivestito
funzioni istituzionali e di governo, non ha operato su di lui alcun
ripensamento e, come capo dello Stato, anziché attenersi rigorosamente
alla Carta, come ci si dovrebbe aspettare dal suo supremo custode,
continua in realtà a travalicarne i limiti e le funzioni.
La natura autoritaria che lo permea e che lo ha costantemente ispirato nella sua lunga militanza politica
gli permette di compiere, senza imbarazzo alcuno, questi continui
strappi costituzionali, insieme alla vanità dell’apparire che lo
accomuna al suo sodale Monti, del quale non disdegna d’essere
considerato la guida e il mèntore. Si ricorderà, solo di passata, che
Napolitano è il solo comunista al quale la caduta del muro non ha
impedito di salire ai vertici dello Stato. All’Est, nessuno si sarebbe
sognato di eleggere un vecchio arnese del passato regime. E’ per questo,
che fuori ogni norma costituzionale e di principio, che al contrario
dovrebbe imporgli la regola del silenzio e della discrezione, Napolitano
ha derogato continuamente dal suo ruolo compiendo stavolta un atto di
governo in aperto contrasto con lo spirito della Carta che assegna al
presidente pochissimi poteri e per certi versi meramente simbolici e di
rappresentanza.
Non è la prima volta che Napolitano pontifica e interviene su argomenti che esulano dal suo ufficio, lo
fa praticamente ogni giorno e la sua natura partenopea non gli è di
grande aiuto, ma questa volta dicendo al governo ciò che dovrebbe fare,
in materia di riduzione delle spese, ha compiuto un gesto di arroganza e
di arbitrio mostrando d’essere più interessato alla salvaguardia dei
privilegi di casta che alla condivisione dei sacrifici uguali per tutti.
Nessun limite alla pressione fiscale e agli oneri sui consumi, in
compenso si restringono i diritti del cittadino, su questo il presidente
non si è pronunciato, dando prova di condividerli, mentre si mostra
preoccupato quando la “spending review” minaccia di colpire la giungla
dei privilegi e degli sperperi e dove l’esecutivo si arresta intimidito.
Così il numero delle auto blu non è stato ridotto di molto, non
si parla di ridurre i rimborsi elettorali ai partiti, né di ridurre le
pensioni d’oro (Amato, Ciampi) né la body guard del presidente Fini (ma
chi se lo fila l’ex balilla di Almirante?), nè, tanto meno, di ridurre
le spese del Quirinale repubblicano che costa sei volte di più del
palazzo reale della regina Elisabetta II d’Inghilterra. Si è giunti alla
furbizia levantina di far rientrare dalla finestra norme e
provvedimenti che la volontà popolare aveva cacciato dalla porta.
L’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti votata a maggioranza
dagli elettori, non ha avuto alcun effetto. Si è mascherata
l’abolizione, col contributo elettorale, tradendo la volontà degli
elettori e spendendo più di prima.
Non è la prima volta che succede. Non è un mistero
che in Italia c’è una dittatura dei partiti. E solo il discredito in cui
sono precipitati ha permesso l’avvento in Italia, come in certa
Sudamerica, di un governo non rappresentativo del popolo. Solo in Italia
viene tollerato l’asse di potere che, contro ogni regola democratica,
si è stabilito tra Quirinale e palazzo Chigi, un asse che equivale a un
colpo di Stato che ha esautorato il Parlamento e ogni altra sede di
mediazione politica. E’ per questo che il presidente, non temendo nè
critiche né censure, si comporta come il capo di una repubblica
presidenziale che, come in Francia e negli Stati Uniti, è sottoposto al
voto degli elettori. Ma le libere elezioni e la volontà popolare non
appartengono al bagaglio ideologico del compagno Napolitano. Così in un
governo di Carneade, re Giorgio può impunemente agire da sovrano.
Fonte: http://www.lindipendenza.com/napolitano-repubblica-partiti/
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