Ho la sensazione che tutte le tragedie
che abbiamo vissuto, prima il colonialismo, poi il fascismo, infine i
campi di sterminio, tutto ciò si inserisca su una linea che non è in
opposizione o in contraddizione con il cosiddetto umanismo nella forma
in cui lo pratichiamo da parecchi secoli ma, direi, quasi sul suo
prolungamento naturale. Perché, in qualche modo, è con un medesimo gesto
che l’uomo ha cominciato a tracciare la frontiera dei suoi diritti
prima tra sé e le altre specie viventi e poi è stato indotto a
trasferire questa frontiera all’interno della stessa specie umana,
separando certe categorie riconosciute come le sole veramente umane, da
altre che subiscono perciò una degradazione ricalcata sullo stesso
modello che serviva a discriminare tra speci viventi umane e non umane.
E’ questo il vero peccato originale che spinge l’umanità
all’autodistruzione.
« L’idéologie marxiste, communiste et totalitaire n’est qu’une ruse de l’histoire », tr. di F. Trasatti, Le Monde, 21-22 gennaio 1979, p. 14.
L’atteggiamento più antico […] consiste
nel ripudiare puramente e semplicemente le forme culturali – morali,
religiose, sociali, estetiche – che sono più lontane da quelle con cui
ci identifichiamo. “Abitudini di selvaggi”, “da noi non si fa così”,
“non si dovrebbe permettere questo”, ecc., sono altrettanti reazioni
grossolane che esprimono lo stesso fremito, la stessa repulsione, di
fronte a modi di vivere, di pensare o di credere che ci sono estranei.
Così l’antichità confondeva tutto quello che non faceva parte della
cultura greca (e poi greco-romana) sotto lo stesso nome di barbaro: la civiltà occidentale ha poi utilizzato il termine selvaggio
nello stesso senso. Ora, dietro a questi epiteti si dissimula un
medesimo giudizio: è probabile che il termine “barbaro” si riferisca
etimologicamente alla confusione e all’inarticolazione del canto degli
uccelli, contrapposte al valore significante del linguaggio umano; e
“selvaggio”, che vuol dire “della selva”, evoca pure un genere di vita
animale, in opposizione alla cultura umana. In entrambi i casi si
rifiuta di ammettere il fatto stesso della diversità culturale; si
preferisce respingere fuori dalla cultura, nella natura, tutto ciò che
non si conforma alle norme sotto le quali si vive.
Rousseau può aiutarci a respingere
un’illusione i cui funesti effetti, ahimè, li possiamo osservare in noi
stessi e su di noi stessi. Non è stato infatti il mito della dignità
esclusiva della natura umana a far subire alla natura medesima una prima
mutilazione, da cui dovevano inevitabilmente conseguire altre
mutilazioni? Si è cominciato con il recidere l’uomo dalla natura, e con
il costituirlo a regno sovrano; si è così creduto di cancellare il suo
carattere più irrecusabile, ovverosia che egli è in primo luogo un
essere vivente. E, non vedendo questa proprietà comune, si è dato campo
libero a tutti gli abusi. Mai meglio che al termine degli ultimi quattro
secoli della sua storia, l’uomo occidentale è in grado di capire che,
arrogandosi il diritto di separare radicalmente l’umanità
dall’animalità, accordando all’una tutto ciò che toglieva all’altra,
apriva un circolo vizioso, e che la stessa frontiera, costantemente
spostata indietro, sarebbe servita a escludere dagli uomini altri
uomini, e a rivendicare, a beneficio di minoranze sempre più ristrette,
il privilegio di un umanismo nato corrotto per aver desunto dall’amor
proprio il suo principio e la sua nozione.
L’unica speranza, per ognuno di noi, di
non essere trattato da bestia dai suoi simili, sta nel fatto che tutti i
tuoi simili, e lui per primo, si colgano immediatamente come esseri
sofferenti, e coltivino nell’intimo quella attitudine alla pietà.
Stiamo registrando oggi le estreme
manifestazioni di quella grande corrente cosiddetta umanistica che ha
preteso di costituire l’uomo in regno separato e che, a mio avviso,
rappresenta uno dei maggiori ostacoli al progresso della riflessione
filosofica.
Il pervertimento della civiltà urbana,
dovuto all’industrializzazione […] si è tradotto sul piano ideologico in
una filosofia e in una morale che, approfittando disinvoltamente
dell’emergere di un’umanità distruttrice di tutto quanto non è se
medesima (poi, inevitabilmente, anche di se medesima, dacché essa non
dispone più di alcuno “spalto” che la ponga al riparo dai propri
attacchi), sono giunte a glorificare, sotto il nome di umanismo, questa
rottura tra l’uomo e le altre forme di vita, lasciando all’uomo solo
l’amor proprio come principio di riflessione e di azione.
Claude Lévi-Strauss, Antropologia strutturale 2, trad. it. di S. Moravia, Il Saggiatore, Milano 1990,pp. 371-372, p. 77, p. 325.
In questo secolo in cui l’uomo si
accanisce nel distruggere innumerevoli forme di vita, dopo aver
distrutto molte società la cui ricchezza e diversità costituiscono da
tempo immemorabile il suo più splendido patrimonio, è più che mai
necessario dire, come fanno i miti, che un umanesimo ben orientato non
comincia da se stessi, ma pone il mondo prima della vita, la vita prima
dell’uomo e il rispetto degli altri esseri prima dell’amor proprio. Né
va dimenticato che, essendo comunque destinato a terminare, nemmeno un
soggiorno di uno o due milioni di anni su questa terra può servire per
appropriarsi del nostro pianeta come se fosse una cosa e per comportarsi
senza pudore e senza discrezione.
Claude Lévi-Strauss, L’origine delle buone maniere a tavola, trad. it. di M. Di Meglio, Il Saggiatore, Milano 2010, p. 457.
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