Le notizie sono volatili, si sa: quelle di oggi diventano carta in cui avvolgere il pesce comprato al mercato il giorno dopo. E’ normale perciò che solo in pochi si prendano la briga di approfondirle. andando a guardare quello che ci sta dietro. Un esempio recente? Ci siamo commossi tutti all’annuncio che Rossella Urru era stata liberata – giustamente, per carità - e nessuno è stato lì a seguire la storia del riscatto, milionario, che è stato pagato ai suoi sequestratori del MUJAO . D’altra parte, che fossero 3, 5 o 10 milioni di euro, che importanza mai poteva avere di fronte alla gioia di riavere finalmente fra noi la giovane cooperante sarda? La Farnesinapoi, come sempre, non aveva alcun interesse a toccare questo tasto, delicato e piuttosto imbarazzante. Per cui niente domande al riguardo. E infatti non se n’è più parlato.
Eppure, il capitolo non è affatto chiuso. Sì, perchè la conferma, per bocca di Walid Abou Sahraoui, portavoce del MUJAO, che c’è stato un pagamento di 18 milioni di dollari per il rilascio di Rossella Urru e dei suoi due colleghi spagnoli, ha finito per rilanciare il dibattito internazionale sull’opportunità o meno di pagare questi riscatti, visto che costituiscono una delle principali fonti di finanziamento dei gruppi jihadisti che scorazzano per il Sahel. Secondo l’ultimo Report dell’International CrisisGroup, l’AQMI ad esempio avrebbe incassato negli ultimi anni dal sequestro di cittadini occidentali – turisti o cooperanti - non meno di 50 milioni di euro, che le hanno permesso peraltro di radicarsi fra la popolazione civile, associandola a vario titolo in questa che è diventata una vera e propria “industria” dei sequestri. Un po’ come capitava in Calabria o in Sardegna ai tempi dell’Anonima Sequestri. I soldi dei riscatti alimentano infatti una rete locale sempre più vasta, che campa di sequestri e ne reinveste i proventi in traffici di vario tipo, a cominciare dalla droga. Inoltre, i riscatti foraggiano il reclutamento di nuovi miliziani – come pare stia facendo in questi giorni il MUJAO - creando così un corto circuito perverso, che da un lato espone i Paesi Occidentali a nuovi sequestri e dall’altro ha finito per trasformare la regione saheliana – vale a dire tutta l’area compresa fra Senegal, Mauritania, Mali, Niger, Ciad e sud dell’Algeria e della Libia - in un vero e proprio “santuario” del fondamentalismo islamico di stampo jihadista, come lo sono state per anni le aree “tribali” del Pakistan.
E’ giusto quindi pagare in caso di sequestri, oppure no? E’ un dibattito che in Italia non è mai stato molto popolare, perchè si è preferito privilegiare l’approccio “umanitario”. Ma sotto banco, senza fargli cioè troppa pubblicità , associandolo anzi ad un low profile sul piano diplomatico e internazionale. Questo approccio ci ha attirato le critiche di alcuni alleati – inglesi ed americani, tanto per far dei nomi, da sempre contrari al pagamento di riscatti - ma soprattutto non ci ha permesso di affrontare la questione nei suoi molteplici aspetti, condannandoci sempre, in nome dell’emergenza umanitaria, a nascondere la testa sotto la sabbia, come gli struzzi. Bene ha fatto perciò L’Avvenire, domenica scorsa, ad aprire il dibattito, grazie ad un’inchiesta di Laura Silvia Battaglia tra le ONG italiane che operano in aree di crisi e sono più esposte ai sequestri. Si tratta infatti di un fattore che sta modificando in profondità le scelte operative e le regole di comportamento di molti organismi umanitari. Ed è il caso che il dibattito sia il più ampio possibile.
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