Di Noam Chomsky
Nota della redazione di Znet Italy: questo
articolo è adattato da un discorso tenuto da Noam Chomsky il 19 giugno
all’Università di St. Andrews a Fife, Scozia, come parte delle
celebrazioni del seicentesimo anniversario della stessa.
Eventi recenti disegnano una traiettoria sufficientemente minacciosa
da rendere forse utile guardare avanti di un paio di generazioni alla
ricorrenza dei mille danni da uno dei grandi eventi dell’istituzione dei
diritti civili e umani: la sottoscrizione della Magna Charta, lo
statuto delle libertà inglesi imposto a re Giovanni nel 1215.
Quello che facciamo, o non facciamo oggi determinerà quale tipo di
mondo saluterà tale anniversario. Non è una prospettiva attraente, anche
per il motivo, non ultimo, che il Grande Statuto viene stracciato
davanti ai nostri occhi.
La prima edizione accademica della Magna Carta fu pubblicata nel 1759
dal giurista inglese William Blackstone, il cui lavoro fu una delle
fonti della legge costituzionale statunitense. Era intitolate “Il Grande
Statuto e la Carta della Foresta”, seguendo una pratica anteriore.
Entrambi gli statuti sono molto significativi oggi.
Il primo, la Carta delle Libertà, è diffusamente riconosciuto come la
pietra angolare dei diritti fondamentali dei popoli anglofoni o, nella
definizione più grandiosa di Winston Churchill, “la carta di ogni uomo
che si rispetti, in ogni tempo e in ogni paese.”
Nel 1679 la Carta fu arricchita dalla legge sull’Habeas Corpus,
intitolata formalmente “una legge per la miglior garanzia della libertà
del soggetto e la prevenzione dell’incarcerazione all’estero”. La
versione moderna più violenta viene chiamata “rendition” [‘consegna’ –
n.d.t.]: l’incarcerazione a fini di tortura.
Come gran parte della legge inglese, tale legge fu inclusa nella
Costituzione degli Stati Uniti, che afferma che “il decreto sull’habeas
corpus non sarà sospeso” eccetto che in caso di rivolte o invasioni. Nel
1961 la Corte Suprema degli Stati Uniti stabilì che i diritti garantiti
da questa legge erano “considerati dai Fondatori la maggiore
salvaguardia della libertà.”
Più specificamente, la Costituzione prevede che nessuna “persona sarà
privata della vita, della libertà o della proprietà, senza un giusto
processo legale [e] un pronto e pubblico processo” da parte dei suoi
pari.
Il Dipartimento della Giustizia ha recentemente spiegato che queste
garanzie sono rispettate mediante delibere interne del ramo esecutivo,
come hanno riferito Jo Becker e Scott Shane sul The New York Times del
29 maggio. Barack Obama, l’avvocato costituzionale della Casa Bianca,
si è detto d’accordo. Re Giovanni avrebbe annuito soddisfatto.
Anche al principio sottostante della “presunzione d’innocenza” è
stata da un’interpretazione originale. Nel calcolo della lista “lista
delle eliminazioni” di terroristi del presidente, “tutti i maschi in età
da servizio militare in una zona di attacco” sono in realtà considerati
combattenti “a meno che ci siano informazioni postume che ne dimostrano
l’innocenza”, hanno sintetizzato Becker e Shane. Dunque oggi la
determinazione dell’innocenza dopo l’uccisione è sufficiente per
rispettare il principio consacrato.
Questo è l’esempio più semplice dello smantellamento della “carta di ogni uomo che si rispetti”.
L’accompagnatoria Carta della Foresta è forse anche più pertinente
oggi. Rivendicava la protezione dei beni comuni dal potere esterno. I
beni comuni erano la fonte di sostentamento della popolazione generale:
il loro combustibile, il loro cibo, il loro materiale da costruzione. La
Foresta non era la natura selvaggia. Era accudita attentamente,
amministrata in comune, le sue ricchezze erano disponibili a tutti e
preservate per le generazioni successive.
Arrivati al diciassettesimo secolo la Carta della Foresta era caduta
vittima dell’economia mercantile e della prassi e moralità capitalista.
Non più protetti per la cura e l’utilizzo comuni, i beni comuni erano
limitati a ciò che non poteva essere privatizzato: una categoria che si
fa sempre più striminzita davanti ai nostri occhi.
Il mese scorso la Banca Mondiale ha stabilito che la multinazionale
estrattiva Pacific Rim può procedere con la sua causa contro il Salvador
per il tentativo di tale stato di difendere il territorio e le comunità
da miniere d’oro altamente distruttive. La protezione dell’ambiente
priverebbe la società di profitti futuri, un delitto secondo le regole
del regime dei diritti degli investitori scorrettamente etichettato
“libero mercato”.
Questo è solo uno delle esempi delle lotte in corso in gran parte del
mondo, alcune con estrema violenza, come nel Congo orientale, ricco di
risorse, dove sono stati uccisi milioni di persone in anni recenti per
garantire una vasta fornitura di minerali per telefoni cellulari e altri
utilizzi e, naturalmente, per grandi profitti.
Lo smantellamento della Carta della Foresta ha portato con sé una
revisione radicale del modo in cui sono concepiti i beni comuni, colta
dall’influente tesi di Garrett Hardin nel 1968 secondo cui “la libertà
in un bene comune ci porta tutti alla rovina”, la famosa “tragedia dei
beni comuni”: tutto ciò che non è di proprietà privata sarà distrutto
dall’avarizia individuale.
La dottrina non è priva di contestazioni. Elinor Olstrom ha vinto il
premio Nobel per l’Economia nel 2009 per il suo lavoro che dimostrava la
superiorità dei beni comuni amministrati dagli utilizzatori.
Ma la dottrina ha forza se ne accettiamo la premessa non dichiarata:
che gli esseri umani sono ciecamente guidati da quello che i lavoratori
statunitensi, all’alba della rivoluzione industriale, chiamarono “il
Nuovo Spirito dell’Età, Conquistare Ricchezza dimenticandosi di tutto
tranne che di Sé Stessi”, una dottrina che i lavoratori condannarono
come degradante e distruttiva, un assalto alla natura stessa di un
popolo libero.
Enormi sforzi sono stati dedicati da allora a inculcare il Nuovo
Spirito dell’Età. Le maggiori industrie sono dedite a quella che
l’economista politico Thorstein Veblen chiamò “la costruzione dei
bisogni”: indirizzare la gente alle “cose superficiali” della vita, come
i “consumi alla moda”, nelle parole del professore di marketing
dell’Università della Colombia Paul Nystrom.
In quel modo la gente può essere resa individualista, alla ricerca
del solo guadagno personale, e distratta da sforzi pericolosi di pensare
per conto suo, agire di concerto e sfidare l’autorità.
Non è necessario diffonderci sui pericoli estremi posti da un unico
elemento centrale della distruzione dei beni comuni: la dipendenza dai
combustibili fossili, che fa la corte al disastro globale. Si può
discutere dei dettagli, ma ci sono ben pochi dubbi seri che i problemi
siano sin troppo reali e che quanto più aspettiamo ad affrontarli, tanto
più orribile sarà l’eredità che lasceremo alle generazioni a venire. La
recente Conferenza di Rio+20 è il tentativo più recente. Le sue
aspirazioni sono state magre, i suoi risultati derisori.
In prima linea nell’affrontare la crisi, in tutto il mondo, sono le
comunità indigene. La posizione più forte è stata presa dall’unico paese
che governano, la Bolivia, il paese più povero dell’America del Sud e
per secoli vittima della distruzione occidentale delle sue ricche
risorse.
Dopo l’ignominioso collasso del vertice di Copenaghen del 2009 sul
cambiamento climatico globale, la Bolivia ha organizzato un Vertice dei
Popoli, con 35.000 partecipanti da 140 paesi. Il vertice ha chiesto una
riduzione molto severa delle emissioni inquinanti e una Dichiarazione
Universale dei Diritti di Madre Natura. Questa è una rivendicazione
fondamentale delle comunità indigene di tutto il mondo.
Tali rivendicazioni sono messe in ridicolo dai sofisticati
occidentali, ma se non acquisiremo un po’ della sensibilità delle
comunità indigene, probabilmente saranno loro a ridere per ultime; una
risata di sinistra disperazione.
Fonte: http://www.zcommunications.org/revisiting-the-magna-carta-by-noam-chomsky
Originale: In These Times
traduzione di Giuseppe Volpe
Da Znet
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