Di Alessandro Marzo Magno
Mettiamola così: se un Paese mettesse in piedi un campo di
concentramento rinchiudendovi in meno di 14 mesi circa 10mila persone, e
facendone morire 1.500, passerebbe alla storia come aguzzino (il tasso
di mortalità, del 15 per cento, è pari a quello del lager di
Buchenwald). Se lo fa l'Italia, invece, niente.
Alzi la mano chi ha mai sentito parlare del campo di
internamento di Arbe. Oppure di quelli di Gonars, Monigo, Renicci e
vari altri. Probabilmente quasi nessuno. Eh già, perché l'Italia
preferisce l'oblio quando il passato è imbarazzante. E invece bisogna
ricordare. Anche gli italiani hanno commesso efferatezze, hanno
ammazzato, hanno rinchiuso nei campi vecchi, donne e bambini facendoli
morire di fame e di malattie.
Nel 1941 l'Italia invade la Jugoslavia e si annette
una parte del territorio, nelle attuali Slovenia e Croazia. Alle
popolazioni locali l'idea di essere dominati da una potenza straniera
non piace granché e dopo quasi un anno di situazione relativamente
tranquilla, comincia una furiosa guerriglia partigiana. La reazione
italiana è durissima: rastrellamenti, fucilazioni, deportazione delle
popolazioni civili dai villaggi delle zone dove sono attivi i
partigiani.
Viene creata una rete di campi di internamento (per chi volesse approfondire: Carlo Spartaco Capogreco, I campi del duce,
Einaudi) dove sistemare le popolazioni deportate. Uno di questi campi
sorge sull'isola di Arbe, nel golfo del Quarnero (oggi Rab, Croazia).
Rispetto agli altri ha avuto un triste primato: quello di essere il più
duro, quello dove sono morte più persone. È gestito dal Regio esercito,
non da camice nere, milizie o quant'altro; non è un campo strettamente
“fascista”, è un campo “italiano”.
Il primo gruppo di internati (240) ci arriva esattamente settant'anni fa,
nel luglio 1942, poi ne giungono altri a gruppi, a fine agosto arrivano
mille minori di 16 anni, tutti assieme. Quasi tutti sono vittime dei
rastrellamenti in Slovenia, pochi i croati. Il campo sorge nel vallone
di Sant'Eufemia, sul fondo della baia di Campora (Kampor), su un terreno
paludoso, sottoposto all'azione dell'alta marea e a rischio inondazione
(Arbe, contrariamente al resto della Dalmazia, è ricchissima d'acqua
dolce).
Gli internati, come detto soprattutto vecchi, donne e
bambini, vengono sistemati all'interno di tende. Le condizioni di vita
sono durissime: «Campo di concentramento non significa campo di
ingrassamento», annota il generale Gastone Gambara, comandante dell'XI
corpo d'armata che aveva giurisdizione sulla zona (naturalmente è morto
senza mai dover rispondere delle sue azioni nei Balcani, e dopo esser
stato reintegrato nell'esercito nel 1952). Condizioni di vita aggravate
dal sadico comportamento del comandante del campo, il tenente colonnello
dei carabinieri Vincenzo Cuiuli (condannato a morte dai partigiani, si
taglierà le vene la notte prima dell'esecuzione). Gli interrogatori
degli internati, dopo la liberazione del campo da parte degli jugoslavi,
l'8 settembre 1943, sottolineeranno anche la crudeltà del cappellano,
don Enzo Mondini, mentre rimarcheranno i tentativi messi in atto dagli
ufficiali medici per alleviare almeno di un po' le pene.
Gli internati di Arbe muoiono per denutrizione (la
razione era 80 grammi di pane al giorno, più una brodaglia cucinata in
ex bidoni di benzina), per malattie (il generale Gambara, enuncia il
principio «internato ammalato uguale internato tranquillo» e fa
distribuire paglia infestata dai pidocchi) e per calamità naturali.
L'episodio più grave avviene nella notte tra il 29 e il 30 settembre
1942 quando un furioso temporale provoca un'inondazione alta un metro
che devasta il settore femminile, trascinando in mare tende, donne e
bambini. Il giorno dopo vengono recuperati dalla baia decine di
corpicini galleggianti. La sezione femminile e quella maschile sono
divise da un ruscello che però è talmente infestato dai pidocchi da
rendere impossibile non solo berne l'acqua, ma persino usarla per
lavarsi.
Gli internati inscheletriti dalla fame, cotti dal
sole, sporchi all'inverosimile, suscitano l'intervento del Vaticano che
cerca di alleviarne le spaventose condizioni, viene costruita qualche
baracca, ma nulla più. Herman Janez, allora un bambino di sette anni,
ricorda il terribile inverno passato sull'isola: «Le guardie ogni giorno
facevano l’appello di noi ragazzini per poi portarci nella rada di mare
antistante al campo e farci fare il bagno. Ci nascondevamo, ma poi
questi ci stanavano e ci costringevano ad andare in acqua. Eravamo già
deboli, pieni di zecche e di pidocchi, di piaghe purulente, puzzavamo di
sterco nostro e altrui, e dopo questi bagni un semplice mal di gola ha
portato tanti di noi al camposanto». La mortalità maggiore si registra
quando il freddo pungente della bora porta via gli internati a
grappoli.
Non si sa esattamente quanti siano stati gli internati.
Le stime vanno da 7.500 a 15.000. Teniamoci su una prudente via di
mezzo e diciamo attorno ai 10mila. I morti accertati, con nome e
cognome, sono 1.435, ma quasi certamente sono di più perché i
sopravvissuti hanno testimoniato che poteva capitare di seppellire due
salme in una tomba e che gli internati nascondessero il corpo di qualche
deceduto per dividersi la sua porzione di brodaglia.
Gli ebrei, per lo più scampati agli ustascia croati,
erano trattati meglio perché il Regio esercito non li considerava
nemici, come invece accadeva per gli sloveni. Per esempio vivevano in
baracche e non in tenda e non subivano le persecuzioni riservate agli
altri. Evelyn Waugh li menziona in un suo racconto, “Compassione”:
«Con improvvisa veemenza la donna, la signora Kanyi, tacitò i
consiglieri e si mise a raccontare la sua storia. Quelli là fuori,
spiegò, erano i sopravvissuti di un campo di concentramento italiano
sull'isola di Rab. Per la maggior parte erano cittadini jugoslavi, ma
alcuni, come lei, erano rifugiati dall'Europa centrale. Alla fuga del
re, gli ustascia avevano cominciato a massacrare gli ebrei. E gli
italiani li avevano radunati trasferendoli sull'Adriatico. Con la resa
dell'Italia, i partigiani avevano tenuto la costa per qualche settimana,
riportando gli ebrei sul continente, reclutando tutti quelli giudicati
utilizzabili, e imprigionando il resto».
Dal 1945 a oggi, mai un rappresentante ufficiale dello stato
italiano è andato ad Arbe a deporre una corona di fiori, mai il console
italiano della vicina Fiume (Rijeka) è andato a pronunciare un'orazione
funebre, mai l'ambasciatore italiano a Zagabria ha sentito il dovere di
chiedere scusa. Soltanto una volta un rappresentante dell'allora
presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, è andato in forma
ufficiale alle commemorazioni del campo di Gonars, in provincia di
Udine. Ma mai l'Italia repubblicana ha preso definitivamente le distanze
da quanto commesso ad Arbe e nei Balcani dall'Italia fascista.
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