Il
senato l'ha approvato il 12 luglio senza dibattito. Lo stesso si
appresta a fare oggi la camera. Meno di una settimana di lavoro per
ratificare il «fiscal compact», il trattato europeo che impone
all'Italia di tagliare 45 miliardi di debito pubblico all'anno per 20
anni (la spending review «cancella» spese per 29 miliardi in 3 anni).
Parallelamente, sempre oggi l'Italia ratificherà definitivamente il Mes («meccanismo europeo di stabilità»), un fondo da 500 miliardi che a fine settembre (subito dopo il pronunciamento della corte costituzionale tedesca) o al più tardi il 1 gennaio prossimo sarà il veicolo per il bail out delle banche e, se necessario, degli stati europei. L'Italia si è impegnata a versare al Mes oltre 15 miliardi in 5 anni.
A differenza di Francia e Germania, Monti potrà dunque sedersi al tavolo dell'Eurogruppo con tutti gli impegni approvati e sottoscritti dalle camere, senza intralci di firma né dei capi di stato (come in 9 paesi europei) né di corti costituzionali. Non un fiato dal parlamento italiano contro gli accordi. Solo la Lega, dopo averli accettati e avviati quando era al governo, ora che è all'opposizione strepita, voterà contro e chiede un (illegittimo e impossibile per la Costituzione) referendum popolare.
Il «fiscal compact» è un macigno per la finanza pubblica italiana, reso ancora più pesante dai controlli e dalle sanzioni pretesi dalla Germania. Procedure che, di fatto, rappresentano una totale cessione di sovranità della politica economica e fiscale alla commissione europea prima e all'Eurogruppo poi.
Il patto prevede l'obbligo del pareggio di bilancio e soprattutto un rientro a tappe forzate del debito pubblico per un ventesimo della quota eccedente il 60% del Pil per 20 anni. In cifre: per l'Italia si tratterebbe di 45 miliardi all'anno. Questo ritmo di riduzione draconiano è appena mitigato da alcuni fattori, tra cui la sostenibilità dei sistemi pensionistici e il livello di indebitamento del settore privato.
Qualunque stato (cioè la Germnia) ritenga che il paese vicino non stia rispettando i patti può deferirlo alla Corte di Giustizia del Lussemburgo (una clausola fortemente voluta da Berlino, arbitro ultimo del rigore europeo anche a discapito dell'eurocommissione) che può sanzionare la capitale inadempiente con una multa fino allo 0,1% del Pil (cioè, per l'Italia, questa ipotetica multa arriverebbe a 1,6 miliardi di euro). Un paese non può rifiutarsi né di ridurre il debito né di obbedire alle correzioni richieste da Bruxelles. A meno che non ci sia una maggioranza ponderata dei paesi dell'eurozona che glielo consenta (per il loro peso, di fatto, Francia e Germania sono arbitri del destino dei paesi più piccoli).
Come si nota anche da questa descrizione sommaria: 1) né i parlamenti nazionali né l'europarlamento hanno alcuna voce in capitolo; 2) di fatto il «fiscal compact» indebolisce la commissione europea (il livello comunitario) e santifica invece la costruzione egoistica dell'Europa intergovernativa portata avanti dai governi di destra negli ultimi anni.
Parallelamente, sempre oggi l'Italia ratificherà definitivamente il Mes («meccanismo europeo di stabilità»), un fondo da 500 miliardi che a fine settembre (subito dopo il pronunciamento della corte costituzionale tedesca) o al più tardi il 1 gennaio prossimo sarà il veicolo per il bail out delle banche e, se necessario, degli stati europei. L'Italia si è impegnata a versare al Mes oltre 15 miliardi in 5 anni.
A differenza di Francia e Germania, Monti potrà dunque sedersi al tavolo dell'Eurogruppo con tutti gli impegni approvati e sottoscritti dalle camere, senza intralci di firma né dei capi di stato (come in 9 paesi europei) né di corti costituzionali. Non un fiato dal parlamento italiano contro gli accordi. Solo la Lega, dopo averli accettati e avviati quando era al governo, ora che è all'opposizione strepita, voterà contro e chiede un (illegittimo e impossibile per la Costituzione) referendum popolare.
Il «fiscal compact» è un macigno per la finanza pubblica italiana, reso ancora più pesante dai controlli e dalle sanzioni pretesi dalla Germania. Procedure che, di fatto, rappresentano una totale cessione di sovranità della politica economica e fiscale alla commissione europea prima e all'Eurogruppo poi.
Il patto prevede l'obbligo del pareggio di bilancio e soprattutto un rientro a tappe forzate del debito pubblico per un ventesimo della quota eccedente il 60% del Pil per 20 anni. In cifre: per l'Italia si tratterebbe di 45 miliardi all'anno. Questo ritmo di riduzione draconiano è appena mitigato da alcuni fattori, tra cui la sostenibilità dei sistemi pensionistici e il livello di indebitamento del settore privato.
Qualunque stato (cioè la Germnia) ritenga che il paese vicino non stia rispettando i patti può deferirlo alla Corte di Giustizia del Lussemburgo (una clausola fortemente voluta da Berlino, arbitro ultimo del rigore europeo anche a discapito dell'eurocommissione) che può sanzionare la capitale inadempiente con una multa fino allo 0,1% del Pil (cioè, per l'Italia, questa ipotetica multa arriverebbe a 1,6 miliardi di euro). Un paese non può rifiutarsi né di ridurre il debito né di obbedire alle correzioni richieste da Bruxelles. A meno che non ci sia una maggioranza ponderata dei paesi dell'eurozona che glielo consenta (per il loro peso, di fatto, Francia e Germania sono arbitri del destino dei paesi più piccoli).
Come si nota anche da questa descrizione sommaria: 1) né i parlamenti nazionali né l'europarlamento hanno alcuna voce in capitolo; 2) di fatto il «fiscal compact» indebolisce la commissione europea (il livello comunitario) e santifica invece la costruzione egoistica dell'Europa intergovernativa portata avanti dai governi di destra negli ultimi anni.
Fonte:il Manifesto
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