Di Noam Chomsky e Mouin Rabbani
Nell’intervista seguente,
realizzata per il Journal of Palestine Studies dal co-direttore di
Jadaliyya, Mouin Rabbani, Noam Chomsky riflette su una vita di impegno
sulla Questione Palestinese. Riflette sul suo impegno iniziale e su come
esso si è sviluppato nel corso della sua vita. Considera anche come le
cose sono – o non sono – cambiate e quale potrebbe e dovrebbe essere la
rotta del conflitto israelo-palestinese. L’intervista è stata realizzata
a Lexington, MA, nel 2009 e 2010 e il testo completo è disponibile sul
Journal of Palestine Studies 41:3 (Primavera 2012) pagg. 92-120 e online.
Mouin Rabbani: A
proposito della politica estera statunitense di oggi tu sei stato molto
critico della tesi di Mearsheimer e Walt sulla politica statunitense in
Medio Oriente.
Noam Chomsky: Beh,
mi piacerebbe che avessero ragione, perché in tal caso c’è un’ovvia
implicazione tattica e potrei smettere questo lavoro infinito, scrivere,
parlare, cercare di organizzare … sarebbe tutta una perdita di tempo.
Basterebbe mettersi giacca e cravatta e andare al quartier generale
industriale della General Electric, della JP Morgan Chase, della Camera
di Commercio statunitense, del Wall Street Journal e spiegare
educatamente che la politica estera statunitense in Medio Oriente
riguardo a Israele è dannosa per i loro interessi. Non è un segreto che
il capitale privato concentrato ha un’influenza predominante sulla
politica governativa in ogni genere di modi, perciò se, in effetti, la
“Lobby” sta forzando gli Stati Uniti a politiche che sono contrarie agli
interessi di questa gente che gestisce efficacemente il paese, dovremmo
essere in grado di convincerli. E metterebbero la Lobby Israeliana
fuori gioco in circa cinque secondi. La Lobby è una briciola in
confronto a loro. La sola lobby dell’industria militare spende molto di
più e ha un’influenza molto maggiore della Lobby [israeliana]. E allora
perché nessuno ha provato a far così? Beh, perché la cosa è così
totalmente poco plausibile che non vale neppur la pena di parlarne, se
non per scherzo.
Il problema fondamentale è non
aver affrontato il fatto che le politiche governative non vengono dal
nulla. Mearsheimer e Walt sono realisti per quel che riguarda la teoria
delle relazioni internazionali, che in essenza sostiene che la struttura
nazionale del potere non è un fattore significativo nella formazione
della politica statale. Si presume che la politica statale si occupi di
qualcosa definito “interesse nazionale”, che è una specie di astrazione
nell’interesse della popolazione, ma non è così. Da secoli si sa che ci
sono fattori diversi nella società, distribuzioni diverse di potere,
alcuni più forti di altri …
Dovrebbe essere una verità
lapalissiana, ma è come cancellato dalla teoria delle relazioni
internazionali. D’altro canto, se lo accettassimo come effettivamente
lapalissiano – e, oggi, ci sono prove schiaccianti che lo è – allora
dovremmo chiedere perché quelli nella posizione di modellare e decidere
la politica governativa statunitense in misura molto decisiva dovrebbero
essere disponibili ad accettare qualcosa contrario ai loro interessi.
Dovremmo spiegare questa strana contraddizione, perché, se lo volessero,
potrebbero cambiare agevolmente la loro politica. Io penso che la
spiegazione sia molto semplice: i principali settori del potere privato
negli Stati Uniti considerano del tutto accettabili le politiche
statunitensi nei confronti di Israele.
MR: Perché?
NC: Perché
Israele è una società ricca e avanzata. Ha un settore delle alte
tecnologie molto potente che è strettamente integrato con l’economia
high-tech statunitense, in entrambe le direzioni. E’ molto potente
militarmente, molto intimamente connesso con l’industria militare USA e,
di fatto, alla politica militare statunitense. Quando Obama dice “Vi
darà gli F-35” quella è una spinta alla Lockheed Martin, una doppia
spinta, perché una volta che il contribuente statunitense paga la
Lockheed Martin, vengono mandati i reattori in Israele e l’Arabia
Saudita non si oppone a ricevere equipaggiamenti di seconda scelta.
Sta succedendo proprio adesso. Il
più grande contratto per armamenti mai realizzato è stato appena
concluso con l’Arabia Saudita per 60 miliardi di dollari per l’acquisto
di equipaggiamento militare. A Israele va bene: l’equipaggiamento e di
seconda scelta e non c’è molto che si possa fare con esso in ogni caso.
Ma ben al di là di ciò, i collegamenti tra l’esercito e i servizi
segreti statunitensi e Israele sono stati estremamente stretti per anni.
Le aziende statunitensi costruiscono strutture in Israele (ad esempio
la Intel, il più grande produttore di chip) e il nostro esercito si sta
recando nel paese per studiare le tecniche di guerriglia urbana. Israele
è una ramificazione del potere statunitense in un segmento
strategicamente critico del mondo. Ora, naturalmente, questo irrita
l’opinione pubblica araba, ma gli Stati Uniti non si sono mai
preoccupati di ciò.
MR: Stai dicendo che la Lobby non è un fattore?
NC: No, la Lobby
esiste. E’ importante. Non è in discussione; né io né altro abbiamo mai
contestato la cosa. E’ ben organizzata, ha le sue vittorie. Ma se va a
scontrarsi con interessi cruciali del potere dello stato o del settore
imprenditoriale, fa marcia indietro. Ci sono casi uno dietro l’altro che
potrei citare. Ma quando quello che fa la Lobby si adegua più o meno
agli interessi dei potenti settori nazionali, è influente. Questo vale
per le lobby in generale. Ad esempio la lobby indiana negli Stati Uniti
ha svolto apparentemente un ruolo importante nel premere sul Congresso
perché accettasse il trattato USA-India, che ha effettivamente
autorizzato gli Stati Uniti a sostenere indirettamente il programma di
armamenti nucleari indiano.
MR: Ma se torniamo ad
alcune delle cose di cui abbiamo discusso in precedenza, molti
direbbero che dove queste lobby sono più efficaci non è in accordi
specifici ma nell’influenzare l’opinione pubblica.
NC: Sì, ma
stanno sfondando una porta aperta, perché ci sono motivi indipendenti
per cui gli statunitensi propendono per Israele. Ricorda, questo è un
rapporto di lunga durata che risale a prima del sionismo. C’è
un’identificazione istintiva che è unica. C’è il paragone
statunitensi-indiani, sai, i barbari pellerossa che cercano di impedire
il progresso e lo sviluppo e attaccano i bianchi innocenti: questo è il
conflitto israelo-palestinese. In effetti sta proprio lì, nella
Dichiarazione d’Indipendenza, scritta da Thomas Jefferson, il più
liberale dei padri fondatori. Una delle accuse contenute nella
Dichiarazione contro Re Giorgio III è di aver scatenato contro di noi
gli spietati selvaggi indiani, il cui noto modo di fare la guerra
consiste nelle torture, le uccisioni e via di seguito. Sarebbe potuto
venir fuori direttamente dalla propaganda sionista. E’ una tensione
molto profonda nella cultura e nella storia statunitensi. Dopotutto il
paese è stato fondato da estremisti religiosi che agitavano il Libro
Sacro e si descrivevano come figli d’Israele di ritorno nella Terra
Promessa. Così il sionismo ha trovato qui da noi il suo ambiente
naturale.
MR: Dunque tu
collocheresti la Lobby principalmente all’interno del più ampio sfondo
culturale, in cui gli statunitensi guardano Israele e riconoscono sé
stessi?
NC: Per molti
statunitensi è semplicemente istintivo che gli ebrei stiano rivivendo in
Israele la loro storia. Si riconoscono e inoltre riconoscono i crociati
che riuscirono a rovesciare i pagani. C’è, qui, un’analogia con la
conquista statunitense del territorio nazionale; anche i sionisti
utilizzano quest’analogia, ma positivamente. Stiamo portando la civiltà
ai barbari, il che, dopotutto, è l’intero nucleo dell’ideologia
imperialista occidentale. E’ radicato molto profondamente.
MR: Ma tutto questo
riguarda il grande pubblico statunitense, “l’americano medio”, se vuoi.
Ma che dire della comunità intellettuale statunitense? Perché propende
per Israele?
NC: Beh, non è
stato perché la Lobby improvvisamente è diventata più efficiente nel
1967. Diciamo che alcuni intellettuali della sinistra liberale che in
precedenza provavano scarso interesse per Israele, o gli erano
avversari, improvvisamente ne sono diventati sostenitori appassionati.
La propaganda della Lobby c’è sempre stata. In realtà prima del 1967 non
era riuscita nei suoi tentativi di far sì che riviste statunitensi come
Commentary, o pubblicazioni come il New York Times adottassero una linea più sionista.
Ma naturalmente parlare della Lobby è difficile perché cos’è la Lobby? Sono gli intellettuali statunitensi? E’ il Wall Street Journal, il
principale giornale economico del sistema politico? E’ la Camera di
Commercio? E’ il Partito Repubblicano, che è considerevolmente più
estremo dei Democratici anche se la maggior parte degli ebrei vota per i
Democratici e la maggior parte dei fondi ebraici va ai Democratici?
MR: Quali sono le
implicazioni di questi punti che stai proponendo per chi vorrebbe vedere
un cambiamento nella politica statunitense in Medio Oriente?
NC: Beh, penso
significhi che dobbiamo riconoscere che se le politiche governative
devono cambiare, cambieranno grazie a movimenti popolari di massa
sufficientemente influenti da diventare un elemento della pianificazione
politica, come il movimento contro la guerra negli anni ’60.
MR: Hai alluso più
volte alla natura esplosiva dell’argomento, alla difficoltà di
dibatterlo negli Stati Uniti. Hai visto qualche cambiamento?
NC: Per molto
tempo è stato difficile da discutere, e le conferenze sul tema creavano
grandi furori e a volte violenze. Ho centinaia di esempi, ma te ne
citerò uno dei tardi anni ’80 quando fui invitato a tenere una settimana
di seminari all’UCLA. Naturalmente, parallelamente, tenevo discorsi
politici. Il tema principale era l’America Centrale, sui cui vertevano
principalmente questi dibattiti. Ma un professore, una specie di colomba
sionista, mi chiese se potevo tenere un discorso sul Medio Oriente ed
io dissi: “Certo”. Un paio di giorni dopo ricevetti una telefonata dalla
polizia del campus che voleva che avessi la protezione della polizia in
uniforme per tutta la durata della mia permanenza nel campus, ero
d’accordo? Beh, no. Non ero d’accordo. Ma per tutto il tempo sono stato
comunque seguito dalla polizia in borghese; se ne stavano seduti nella
sala del seminario, dove tenevo le mie conferenze e mi seguivano al
circolo della facoltà e così via, le fondine al fianco. Ci furono un
mucchio di trambusto e di emotività crescenti a proposito del mio
discorso sul Medio Oriente, che fu tenuto nell’auditorium centrale del
campus; sicurezza tipo aeroporto, ingresso da un’unica porta, tutto
ispezionato e così via. Il discorso andò avanti, non fu interrotto, ma
dopo che io me ne andai ci fu un enorme attacco personale contro di me
nella stampa del campus, non solo contro di me ma anche contro il
professore che mi aveva invitato. Ci fu persino un movimento nel campus
per revocargli la docenza che, naturalmente, fallì; era una figura di
spicco. Ma fu indicativo dell’orientamento all’epoca.
E’ stato così anche qui, al MIT.
Ogni volta che ho dovuto tenere un discorso la polizia è arrivata lì e
ha sempre insistito per riaccompagnare me e mia moglie, alla fine, dove
avevamo parcheggiato le auto. Quando parlò qui Israel Shahak, nel
1995, il suo discorso fu fisicamente interrotto da studenti del MIT. In
parte la cosa fu grottesca. Ricordo un ventenne che portava uno yarmulke
[kippah]
che si alzò in piedi e disse: “Come potuto dire questo di noi, quando
sei milioni di noi sono morti?” Questo a Israel Shahak, sopravvissuto
del Ghetto di Varsavia e a Bergen Belsen! E questo ragazzo gli parlava
di come sei milioni di “noi” fossero morti e otteneva grande tifo
dall’uditorio. C’erano dietro un paio di miei amici, profughi europei;
erano fuggiti intorno al 1939. Dissero di non aver visto niente di
simile dai tempi della Hitlerjugend. Ed eravamo nel 1995. Da allora sono
cambiati. Stavano già cominciando a cambiare all’epoca, ma nei
successivi dieci o quindici anni sono cambiati molto.
MR: A cosa fu dovuto il cambiamento?
NC: Ci sono
state molte ragioni. Per cominciare, i giovani studenti palestinesi, qui
negli USA, hanno cominciato a organizzarsi sul serio, e non al modo
dell’OLP. I temi che hanno introdotto – oppressione, occupazione,
aggressione – si sono basati su principi liberali standard. Hanno
cominciato a organizzarsi al modo in cui si erano organizzati i
movimenti di solidarietà all’America Latina e contro la guerra del
Vietnam, e la cosa ha cominciato ad avere un impatto. E’ stato
spettacolare dopo l’invasione di Gaza. Voglio dire, l’invasione di Gaza
ha fatto infuriare un mucchio di gente. E’ stata una cosa così sfacciata
… avevamo un’enorme forza militare che attaccava persone catturate che
erano completamente indifese e le distruggeva.
Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org
Fonte: http://www.zcommunications.org/reflections-on-a-lifetime-of-engagement-with-zionism-the-palestine-question-and-american-empire-by-noam-chomsky
Originale: Jadaliyya
traduzione di Giuseppe Volpe
Da Znet
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